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 2022  agosto 20 Sabato calendario

Biografia di Albino Ruberti

Francesco Pacifico per Il Messaggero

In Regione lo chiamano ancora Rocky: perché è rabbioso e perché è come quegli arcigni pesi medi che possono incassare all’infinito, ma prima o poi ti mandano al tappeto. E vincono le battaglie più inaspettate. Albino Ruberti non ha mai gradito questo nomignolo, preferendo il titolo conferito in Campidoglio: Mr Wolf, risolvo i problemi. Soltanto che a differenza del personaggio di Harvey Keitel, lui non liquida gli avversari, ma li sa blandire e portare dalla sua parte. Chiedere a Gianni Alemanno, che appena eletto sindaco nel 2008, se lo ritrova a capo di Zetema messo lì da Walter Veltroni. Il nostro convoca tutti i dirigenti della partecipata che gestisce musei e biblioteche. Tutta gente incasellata lì dal centrosinistra. Pronuncia poche parole - «Alemanno è il sindaco di Roma e noi saremo leali all’amministrazione» - e si conquista la stima e la fiducia dei postfascisti che temevano di soccombere sotto questo manipolo di compagni radical chic.
Perché la fortuna di Ruberti - capo di gabinetto di Gualtieri costretto alle dimissioni per un Se devono inginocchià davanti... di troppo - sta proprio nella sua capacità di essere contemporaneamente tecnico e politico. Ha le conoscenze tecniche per trattare alla pari con i ministeri, ha sensibilità partitiche per anticipare e realizzare al meglio i desiderata dei suoi datori di lavoro. Dote non gradita dai suoi colleghi Grand commis, che invece prediligono la terzietà e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
DA RUTELLI A GUALTIERI
Cinquantaquattro anni, tre matrimoni alle spalle e attualmente compagno della consigliera regionale dem Sara Battisti, Albino Ruberti è figlio di Antonio Ruberti, ex ministro socialista dell’Università e rettore della Sapienza. Giovanissimo entra con Rutelli nella macchina amministrativa capitolina - sarà lui a organizzare le prime Notti bianche - poi dal 1998 è in Zetema con Veltroni, dove ideerà le Notti dei Musei, la ricostruzione virtuale dei Fori con Piero Angela e il Roma pass card, il biglietto integrato musei e bus. Il salto di qualità arriva nel 2017 quando Zingaretti prima lo chiama in Regione a rilanciare Lazio Crea poi lo vuole come suo capo di gabinetto. E sempre il governatore uscente lo consiglia a Gualtieri come suo capo di gabinetto. In questa veste si occuperà di tutto e il contrario di tutto: rifiuti, Giubileo, trasporti, persino del piano degli arenili di Ostia mettendo fine alle guerra interna nei Dem sul litorale. Ma accanto ai successi anche gaffes che non ne fermano l’ascesa. Nel 2020, durante il lockdown, si fa scoprire mentre fa una grigliata con amici. «È stato un pranzo di lavoro», dirà. Un anno dopo i suoi figli sono fermati dai Carabinieri ai Parioli e replicano agli agenti «Voi non sapete chi è nostro padre».
CARATTERIALE
Segni particolari: caratteriale, accentratore, decisionista, lavoratore indefesso. Le sue sfuriate, come quella diventata pubblica contro i fratelli De Angelis nel video pubblicato dal Foglio, sono proverbiali. Ma in Comune e in Regione raccontano che il nostro - alzata la voce e mostrato lo sguardo truce - dopo un minuto si calma, torna bonario, offre il caffè e i babà arrivati da Gaeta, fa battute e indice subito una riunione. Perché lui «è quello che risolve i problemi».

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Tommaso Labate per il Corriere della Sera
«Sono state parole, per le quali ho chiesto scusa. Ma non ho mai alzato le mani in vita mia». Ecco, uno dei problemi di Albino Ruberti — sottolineato anche dagli amici e collaboratori che in queste ore difficili ne esaltano l’abnegazione al lavoro, l’instancabilità, le grandi prestazioni rese alle istituzioni pubbliche, che ha servito fino alle dimissioni di ieri da capo di gabinetto del sindaco di Roma Roberto Gualtieri — è sempre stata la memoria breve. O, meglio, quella specie di offuscamento sulle cose dette e fatte che spesso è un effetto collaterale della vita, che si abbatte sulle persone particolarmente irascibili.
E così, quando per difendersi dall’aggressione verbale ai danni di alcuni esponenti del Pd ciociaro, immortalata da un video di cui Il Foglio è entrato in possesso, Ruberti, a dispetto del soprannome «Rocky», ha giurato di non aver «mai» alzato le mani in vita sua, i suoi nemici — che sono tantissimi — hanno cominciato a far viaggiare di telefonino in telefonino il video delle proteste degli animalisti alla presentazione della campagna per le primarie Pd di Nicola Zingaretti, anno 2018, in cui si vedeva il capo di gabinetto scagliarsi con veemenza contro gli autori della manifestazione, che infatti avevano denunciato l’aggressione. A seguito di un certosino sminuzzamento del video alla moviola, l’avvocato di Ruberti aveva certificato che non c’era stato alcun contatto; ma il sospetto, inquadrature parziali alla mano, era rimasto eccome.
Come rimarrà a vita, e questa sarà la macchia più difficile da togliere anche da un curriculum importante come quello di Ruberti, il sospetto che dietro la discussione coi fratelli De Angelis — «Tu dici me te compro? Inginocchiati o ti ammazzo! Vi ammazzo! Vi sparo! Vi do cinque minuti» — non ci fosse semplicemente una discussione calcistica di quelle che, ormai, non degenerano a questi livelli neanche nei peggiori bar di Buenos Aires dopo Boca Juniors-River Plate. Alla scusa che fosse una lite su Roma-Lazio, su cui ufficialmente concordano aggressore verbale e aggrediti, credono in pochi. Anche se, e questo è un dato di fatto, Ruberti è un accanito tifoso della Lazio; anche se, dato incontestabile, Ruberti è una persona irascibile; anche se, opinione diffusa da sempre negli uffici in cui ha lavorato, Ruberti era il classico servitore delle istituzioni con l’innata propensione a farsi molto male da solo per cose piccole o piccolissime.
«C’è gente che si rimette in piedi dopo inchieste, avvisi di garanzia, a volte condanne, perché sono i classici tipi che cadendo dal decimo piano si rompono giusto un braccio. E poi c’è gente che la vedi da come si muove e come ti tratta, da come perde la pazienza per un nonnulla, sono quelli che dalla terza buccia di banana non si rialzano più. Albino fa parte della seconda categoria», dice uno che l’ha frequentato per tantissimo tempo. Per anni, le virtù pubbliche hanno sopravanzato nettamente i vizi privati: «Ruberti» era capo di Zetema e organizzatore di eventi storici come la prima notte bianca della Capitale, «Albino» è quello che finisce a litigare per un punto contestato in un torneo di beneficenza di tennis; «Ruberti» il capo di gabinetto inflessibile con Zingaretti alla Regione prima e Gualtieri in Campidoglio dopo, «Albino» è quello di cui si sentono le urla quando le luci degli altri uffici sono spente da ore.
Poi, la maledizione: «Mister Albino» ha sopravanzato il «Dottor Ruberti», i «lei non sa chi sono io» sono passati di padre (sorpreso a un pranzo di pesce organizzato in barba alle regole del lockdown, con tanto di multa pagata, aveva detto alle forze dell’ordine «le regole le scrivo io») in figlio (fermati per un controllo ai Parioli, i due eredi si erano ribellati al controllo stradale dei carabinieri) ed è finita come l’ormai ex capo di gabinetto di Gualtieri aveva pronosticato in quella notte maledetta di Frosinone. «Basta!, vojo finì la mia vita qua!», urlato all’indirizzo della fidanzata consigliera regionale, Sara Battisti, e dei fratelli De Angelis. Per la vita, intesa ovviamente come vita nelle istituzioni, è finita là. Il chiarimento telefonico con Gualtieri, dopo la pubblicazione del filmato, è terminato nell’unico modo in cui poteva finire, con le dimissioni. Quell’«inginocchiati!» gli rimarrà appiccicato per troppo tempo ancora, anche perché non aveva i rimandi melodrammatici dell’«addenocchiate e vàsame sti ‘mmane» che Mario Merola rivolgeva al figlio nella celebre sceneggiata dello Zappatore. Lì piangevano tutti. Qua, alla fine, piange solo uno.