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 2022  agosto 19 Venerdì calendario

"ATTACCAVANO LUI PER ATTACCARE BERLUSCONI, MA IMPARÒ IN POCO TEMPO A STARE DAVANTI ALLE TELECAMERE" – IL RICORDO DI VITTORIA NICOLETTA GHEDINI, SORELLA DI NICCOLO': "FU GAETANO PECORELLA A SEGNALARLO A BERLUSCONI. LA SUA SEGRETARIA MI DISSE CHE LO VOLEVA INCONTRARE A MILANO, GLI RISPOSI CHE SE LO VOLEVA VEDERE POTEVA BENISSIMO VENIRE LUI A PADOVA" - IL NIPOTE LUCA FAVINI: "MI DISSE SE LA PELLE E' BIANCA COME UNA PAGINA DI UN LIBRO IN AULA INCUTI PIU' TIMORE. HA PARTECIPATO A TANTE CENE CON SILVIO. MI RACCONTAVA DELLE..." -

Vittoria Nicoletta Ghedini torna con la memoria a quasi mezzo secolo fa. «Quando papà morì, Niccolò avrà avuto si e no quindici anni mentre io e le mie sorelle Francesca e Luisa Ippolita, eravamo molto più grandi.

Fu un duro colpo, per fortuna eravamo una famiglia solida e ci pensò mamma Renata a tenerci uniti, compatti: mio fratello, che da giovane era anche piuttosto scapestrato, non avrebbe mai fatto nulla che potesse deluderla».

Ghedini è uno dei nomi più noti dell’alta borghesia veneta: generazioni di legali che da oltre un secolo si tramandano lo studio in centro a Padova.

Scomparso mercoledì a 62 anni, Niccolò – avvocato, parlamentare di Forza Italia e soprattutto difensore di fiducia di Silvio Berlusconi, che l’ha sempre voluto accanto come amico e consigliere politico – rivive nei ricordi d’infanzia della sorella e in quelli del nipote Luca Favini, entrato pure lui a far parte del team legale di via Altinate.

«Mi ero appena laureata in giurisprudenza, e con Luisa ci ritrovammo a prendere le redini dello studio, mentre Francesca seguiva la sua passione per l’archeologia», racconta Vittoria Nicoletta Ghedini.

«Intanto Niccolò frequentava le superiori e a 17 anni si sarebbe fidanzato con una ragazzina, Monica Merotto, che poi è diventata sua moglie e con la quale ha condiviso tutta la vita. Ad ogni modo, ci serviva subito un buon penalista e chiesi consiglio a un amico che mi indicò un giovane e promettente assistente, laureatosi da poco».

Piero Longo. Suo fratello l’ha sempre considerato «il maestro». «Longo si dimostrò ben presto il fuoriclasse che tutti conosciamo. E quando Niccolò, appena laureato, venne a lavorare con noi, lui lo prese sotto la sua ala».

La ribalta arrivò negli anni Ottanta: Longo difendeva Marco Furlan, il serial killer di Ludwig, e volle Niccolò accanto a sé. Per la prima volta si trovò a rispondere all’assalto dei giornalisti, come reagì? V.Ghedini: «Con molto equilibrio: non era vanitoso ma aveva capito che anche l’aspetto mediatico aveva un certo peso. Se la cavò bene: sapeva argomentare, anche perché studiava molto. In poco tempo imparò a vincere l’innata riservatezza e a stare davanti alle telecamere, capacità che gli tornò utile dopo il suo ingresso in politica, quando ospite di Michele Santoro si trovava a replicare alle invettive di Marco Travaglio».

Favini: «Mio zio era un intellettuale: soffriva d’insonnia e trascorreva le notti a leggere ogni genere di libro. Era preparatissimo sugli argomenti più disparati: dalla cucina alle arti marziali, oltre ovviamente al Diritto. Conosceva ogni Legge, ogni cavillo; sapeva quale tribunale sarebbe stato più favorevole, a quali argomenti quel giudice avrebbe dimostrato più sensibilità. Partecipare alle riunioni con lui e Longo, ascoltare le loro arringhe, per me è stato come assistere all’attività di due geni assoluti. Niccolò, poi, univa alla competenza la capacità di entrare in empatia col cliente, di rassicurarlo e di farlo sentire compreso».

Dopo Ludwig, la nuova sliding door: l’incontro con Berlusconi. V. Ghedini: «All’epoca era segretario dell’Unione delle camere penali italiane. Fu Gaetano Pecorella a segnalarlo al leader di Forza Italia, negli anni Novanta. Ricordo che un giorno ero da sola in ufficio quando arrivò la telefonata di una signora: si presentò come la segretaria di Berlusconi e mi spiegò che il Cavaliere chiedeva che Niccolò lo raggiungesse a Milano. Le risposi che se voleva incontrare mio fratello poteva benissimo venire lui a Padova…».

Favini: «A Silvio l’ha legato un’amicizia sincera, profonda. Mi ha sempre parlato di lui come di un grande politico e di una brava persona che voleva il bene dell’Italia. Insieme hanno vissuto molte avventure, professionali e umane. Giusto o sbagliato che sia, l’ha sempre difeso: nelle aule di tribunale, nella convinzione che fosse un perseguitato, e in televisione, dove i giornalisti stravolgevano la realtà».

Quel legame gli è costato molti grattacapi: è stato dipinto come l’eminenza grigia di Forza Italia, l’uomo dietro alle leggi ad personam, l’avvocato pagato per negare l’innegabile, a cominciare dal Bunga Bunga… V. Ghedini: «Attaccavano lui per attaccare Berlusconi. E spesso le offese scendevano su un piano personale: dicevano che era brutto, lo chiamavano Lurch, come quello della Famiglia Addams... Oggi si direbbe che era vittima di body shaming».

Favini: «Lo zio ha partecipato a tante cene con Silvio. Mi raccontava delle canzoni di Mariano Apicella, delle barzellette, ma di sicuro non si sarebbe mai infilato in situazioni inopportune.

Ad ogni modo lui volava alto, le insinuazioni non lo ferivano. Ricordo che veniva sbeffeggiato anche per il suo pallore. Un giorno mi disse: “Se la pelle è bianca come le pagine di un libro, in aula incuti più rispetto e soggezione”. Il suo insegnamento è anche questo: saper tirare fuori il meglio da ciò che hai a disposizione».

Quando ha saputo di essere malato di leucemia? Favini: «Circa un anno e mezzo fa, e vista la sua cultura aveva capito immediatamente la gravità della situazione. Ad ogni modo si sottopose subito alle cure e intanto continuava a seguire il lavoro: mi chiedeva di aggiornarlo, mi dava consigli, mi spronava a fare sempre bene».

V. Ghedini: «È stato un soldato. Ha affrontato la malattia, e poi la morte, con la stessa dignità che l’ha accompagnato per tutta la vita».