18 agosto 2022
In morte di Niccolò Ghedini
Luca Fazzo per il Giornale
La parte finale della lunga partita tra Silvio Berlusconi e la giustizia si svolge con altri nomi al fianco del Cavaliere: l’aplomb di Federico Cecconi, il carisma accademico di Franco Coppi. Ma l’essenza dell’interminabile faccia a faccia tra il leader di Forza Italia e la magistratura, che fu un ring di scontri furibondi e senza esclusione di colpi, si incarna nell’uomo che ieri soccombe a una lunga malattia e che rispondeva al nome di Niccolò Ghedini. L’unico avvocato in grado di reggere l’asprezza di uno scontro a suo modo brutale, dove le armi del diritto - tutte, nessuna esclusa - erano solo un pezzo dello scontro totale, fatto di politica, di ribalta pubblica, di alleanze. Uno scontro che Ghedini combatté dall’inizio alla fine con un solo, granitico obiettivo: quello di portare in salvo il leader politico in cui si riconosceva e in cui vedeva la vittima sacrificale di un attacco tutto ideologico da parte della magistratura e della sua componente più schierata.
Era entrato in scena alla fine degli anni Novanta, quando l’assedio giudiziario a Berlusconi durava ormai da cinque anni. All’offensiva giudiziaria, il Cavaliere aveva reagito inizialmente in modo quasi pacato, come se non si rendesse conto della importanza drammatica della posta in gioco. Così aveva scelto per difendersi luminari del diritto di prestigio indiscutibile, come Giuseppe De Luca e Ennio Amodio. Che però si erano presto rivelati inadatti alla violenza da catch dello scontro in corso. Mentre De Luca intratteneva i cronisti giudiziari sul «moderno Leviatano» e cose simili, nelle procure di tutta Italia si tessevano le fila di un attacco che aveva come unica posta finale lo scalpo del leader azzurro. Quando Berlusconi si arrende all’evidenza, capisce che non è solo con le armi della dottrina giuridica che può sperare di uscire incolume dallo scontro. E prima ancora di lui lo capisce il consigliere che più in questi anni gli è stato vicino, e ne ha condiviso e patito i guai giudiziari: ovvero Cesare Previti. È Previti a introdurre a Berlusconi questo avvocato padovano lungo e pallido, apparentemente pacato. Ghedini è cresciuto insieme al suo collega Piero Longo, in un affiatamento di coppia che risulterà decisivo nella fase dello scontro frontale, ma che fino a quel momento si è sviluppato senza clamori: l’unica difesa che porta Ghedini all’onore delle cronache è quella negli anni Ottanta di Wolfgang Abel e Marco Furlan, i due neonazisti veronesi protagonisti delle imprese della banda Ludwig. Niente a che fare con la temperie in cui Longo e Ghedini si trovano catapultati quando si prendono - per intero, da un capo all’altro della penisola - il compito di «salvare il soldato Berlusconi».
Da quel momento, Ghedini diventa una presenza fissa nelle aule dei processi a Berlusconi. In centinaia o forse migliaia di udienze, nessuno può ricordare di avergli mai sentito alzare la voce o perdere la calma. Ma nemmeno è mai accaduto che perdesse un passaggio, un dettaglio, un appiglio su cui aprire una nuova battaglia. Dalle interminabili udienze del processo Mondadori, a quelle del caso Squillante fino al pirotecnico affare Ruby, la scena è sempre quella. Berlusconi in aula, spesso provato, a volte addirittura a occhi chiusi. E accanto a lui Ghedini che non perde un colpo. Ma ancora più cruciale è il suo ruolo dietro le quinte, soprattutto dopo lo sbarco nel 2001 in Parlamento, quando diventa il vero suggeritore delle linee di Forza Italia sulla giustizia, individuando con occhio infallibile obiettivi e trappole. Le poche volte in cui non venne ascoltato, le conseguenze furono pesanti: come quando cercò invano di spiegare che la legge Severino dietro l’apparenza nobile preparava l’affossamento del ruolo politico di Berlusconi. Non venne ascoltato, e le conseguenze sono note.
Era un gentiluomo, e ben lo sa un’avversaria come l’inviata di Repubblica cui nelle aule di udienza non risparmiò mai un baciamano. Ma era a suo agio nel ring, negli scontri a scena aperta con Ilda Boccassini: appassionanti, senza limiti, e alla fine tutti vinti. Alle sue spalle, aveva una macchina organizzativa poderosa, con il grande studio di via Altinante trasformato nel quartier generale di un esercito inferiore come mezzi ma coriaceo nella sua determinazione, dove non un solo foglio dei milioni prodotti dalle procure anti-Cav poteva perdersi o non venire valutato nella sua pericolosità. Sapeva di dover morire, ma a marzo - già stremato dalla leucemia - aveva voluto essere presente, nella sua ultima uscita pubblica, alla cerimonia tra Berlusconi e la sua nuova compagna Marta Fascina. L’assedio al Cavaliere non è finito. Ma se un giorno finirà, sarà soprattutto alla memoria di Niccolò Ghedini che Berlusconi dovrà dire grazie.