La Stampa, 17 agosto 2022
Le conseguenze della fatwa. Racconto di Rushdie
Più tardi, quando il mondo gli esplose attorno, si irritò con sé stesso per aver dimenticato il nome della giornalista della BBC che gli aveva detto che la sua vita di sempre ormai era finita e che per lui stava per iniziare un’esistenza nuova, più cupa. Gli aveva telefonato a casa, sulla sua linea privata, senza spiegargli in che modo avesse ottenuto il numero. «Che cosa si prova - gli chiese - a sapere che è appena stato condannato a morte dall’Ayatollah Khomeini?». A Londra era un martedì di sole, ma quella domanda portò il buio. Senza sapere davvero che cosa stesse dicendo, rispose soltanto: «Non è una bella sensazione». Questo è quello che disse, ma stava pensando: sono un uomo morto. Si chiese quanti giorni gli restassero, e immaginò che la risposta si potesse leggere sulle dita di due mani al massimo. Riagganciò la cornetta e corse giù per le scale dalla sua stanza di lavoro, in cima alla stretta casa a schiera di Islington dove viveva. Le finestre del soggiorno avevano le persiane di legno e, assurdamente, le sprangò con il chiavistello. Poi chiuse a chiave la porta di ingresso.
Era San Valentino, ma da qualche tempo non andava d’accordo con sua moglie, la scrittrice americana Marianne Wiggins. Cinque giorni prima, lei gli aveva detto di sentirsi infelice in quel matrimonio, di non sentirsi più bene accanto a lui. Benché fossero sposati soltanto da un anno, anche lui percepiva che quel matrimonio era stato un errore. In quel momento lei si mise a fissarlo mentre lui si muoveva nervosamente per casa, chiudendo le tende, controllando i chiavistelli delle finestre, con tutto il corpo elettrizzato dalla notizia, come se una corrente elettrica gli stesse passando attraverso, e dovette spiegarle quello che stava succedendo. Lei reagì bene e iniziò a discutere di quello che dovevano fare. Usò il pronome noi. Fu un gesto coraggioso.
Davanti casa, arrivò una macchina inviata dalla Cbs Television. Aveva un appuntamento agli American network’s studios, a Bowater House, Knightsbridge, per comparire live, grazie al collegamento via satellite, nel suo show mattutino. «Dovrei andare, adesso» disse. «É un programma dal vivo. Non posso non presentarmi».
Più tardi, quella stessa mattina, presso la Chiesa greco-ortodossa sulla Moscow Road a Bayswater, doveva svolgersi il servizio funebre del suo amico Bruce Chatwin, morto di Aids. Sua moglie gli chiese: «E per il funerale, cosa pensi di fare?». Non aveva una risposta da darle. Aprì la porta d’ingresso, uscì fuori, entrò in macchina, e lo condussero via. Anche se in quel momento non lo sapeva – il momento in cui usciva di casa di solito non era così carico di significato – non avrebbe fatto ritorno in quella casa, al 41 di St. Peter’s Street, dove aveva abitato per cinque anni circa, se non tre anni più tardi, quando ormai non gli sarebbe neanche più appartenuta.
Negli studi della CBS, la notizia del giorno era lui. In redazione e sui vari monitor la gente stava già usando quella parola che ben presto si sarebbe sentito pendere al collo come una pietra: fatwa.
«Comunico al glorioso popolo musulmano di tutto il mondo che l’autore del libro Versi satanici, che è contro l’Islam, il Profeta e il Corano, e tutti quelli che sono coinvolti nella sua pubblicazione e consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i musulmani di giustiziarli ovunque li trovino». Qualcuno gli consegnò il testo stampato mentre lo accompagnavano in studio per l’intervista. Il suo vecchio sé avrebbe voluto discutere della parola "condannato". Quella che aveva in mano non era una condanna emessa da un tribunale che lui riconosceva o che aveva una qualche giurisdizione su di lui. Sapeva anche, però, che le abitudini del suo vecchio sé non sarebbero più servite. Adesso era una persona nuova. Era una persona nell’occhio del ciclone, non più il Salman che conoscevano gli amici, ma il Rushdie autore dei Versi satanici, titolo acutamente distorto dall’omissione dell’articolo iniziale: "I" "I versi satanici" era un romanzo. "Versi satanici" erano versi satanici, e lui ne era l’autore satanico. Quanto era facile cancellare il passato di un uomo e costruirne una nuova versione, una versione sconvolgente, contro la quale sembrava impossibile lottare.
Osservò i giornalisti che lo stavano fissando e si chiese se quello fosse il modo in cui la gente guardava gli uomini portati al patibolo o sulla sedia elettrica. Uno dei corrispondenti stranieri gli si avvicinò per dimostrarsi cordiale. Chiese a quell’uomo che cosa pensasse della dichiarazione di Khomeini. Era soltanto un plateale sfoggio di retorica o qualcosa di davvero pericoloso? «Oh, non si preoccupi troppo, Khomeini condanna a morte il presidente degli Stati Uniti ogni venerdì pomeriggio!», rispose il giornalista.
In onda, quando gli fu chiesto di rispondere a quella minaccia, disse: «Vorrei aver scritto un libro più critico». Fu orgoglioso, in quel momento e sempre, dopo di allora, di averlo detto. Era la pura verità. Non pensava che il suo libro fosse critico dell’Islam in modo particolare, ma come disse alla televisione americana quella mattina, una religione i cui leader si comportavano in quel modo probabilmente avrebbero potuto usare un po’ di spirito critico.
Quando l’intervista terminò, gli dissero che sua moglie aveva telefonato. Lui chiamò casa e lei disse: «Non tornare. Ci sono almeno duecento giornalisti ad attenderti sul marciapiede».
«Andrò all’agenzia» disse. «Prepara una borsa e vediamoci lì».
Il suo agente letterario, Wylie, di Aitken & Stone, aveva gli uffici a Chelsea, in un edificio con la facciata di stucchi bianchi su Fernshaw Road. Fuori non c’erano giornalisti in attesa: evidentemente, la stampa aveva ritenuto im probabile che facesse visita al suo agente proprio quel giorno. Quando entrò nell’edificio, però, tutti i telefoni stavano squillando e ogni telefonata riguardava lui. Gillon Aitken, il suo agente britannico, lo scrutò con enorme stupore.
Si rese conto di non poter pensare d’anticipo, di non avere idea di come sarebbe diventata la sua vita da quel momento in poi. Riusciva a concentrarsi soltanto sull’immediato e l’immediato era il funerale di Bruce Chatwin. «Mio caro - disse Gillon - credi proprio di doverci andare?». Bruce era stato un suo caro amico. «Chi se ne fotte - disse - andiamo».
Marianne arrivò, con un aspetto leggermente sconvolto in viso, seccata di essere stata presa d’assalto dai giornalisti quando era uscita di casa. Non disse granché. Nessuno di loro disse granché. Entrarono in macchina, una Saab nera, e lui guidò attraversando il parco fino a Bayswater, con Gillon che aveva un’espressione preoccupata in viso, e il suo lungo e languido corpo era ripiegato sul sedile posteriore.
«Sarai sempre un eroe, ma non sarai mai un supereroe».
Sua madre e la più giovane delle sue sorelle vivevano a Karachi, in Pakistan. Che cosa sarebbe accaduto loro? La sorella di mezzo aveva preso da tempo le distanze dalla famiglia, viveva a Berkeley in California. Sarebbe stata al sicuro lì? La sorella maggiore Sameen, la sua "gemella irlandese", si trovava a Wembley con la sua famiglia, non lontana dallo stadio. Che cosa andava fatto per proteggerle? Suo figlio Zafar, di appena nove anni e otto mesi, si trovava con la madre Clarissa nella loro casa nei pressi di Clissold Part. In quel momento, il decimo compleanno di Zafar sembrava molto lontano, lontanissimo.
Il servizio funebre alla Cattedrale di Santa Sofia dell’Arcidiocesi di Thyateira e Gran Bretagna – costruita e sontuosamente decorata un secolo e dieci anni prima per assomigliare a una delle grandi cattedrali della vecchia Bisanzio – era tutto un chiassoso e misterioso parlottare in greco. Bla-bla-bla Bruce Chatwin, intonavano i preti, Chatwin bla-bla. Si alzarono in piedi, si sedettero, si inginocchiarono, si alzarono e si risedettero. L’aria era satura dell’odore del fumo santo.
Lui e Marianne erano seduti accanto a Martin Amis e sua moglie Antonia Phillips. «Siamo in pensiero per te» gli disse Martin abbracciandolo. «Io sono in pensiero per me» rispose lui. Bla Chatwin bla Bruce bla. Paul Theroux era seduto nella panca dietro la sua. «Immagino che la settimana prossima torneremo qui per te, Salman», gli disse.
Quando era arrivato, sul marciapiedi fuori dalla chiesa c’era una coppia di fotografi. Di solito, gli scrittori non attiravano folle di paparazzi. A mano a mano che il servizio funebre proseguiva, tuttavia, i giornalisti iniziarono a entrare in chiesa. Al termine della funzione, si fecero strada verso di lui. Gillon, Marianne e Martin cercarono di creare dei diversivi. Un tipo grigio ostinato (abito grigio, capelli grigi, faccia grigia, voce grigia) solcò la calca, gli spinse vicino un registratore e gli formulò l’ovvia domanda. «Mi scusi - rispose lui - sono qui per il funerale di un caro amico. Non mi sembra opportuno fare interviste».
«Non capisco», disse il tipo grigio, sconcertato. «Sono del Daily Telegraph. Mi hanno mandato qui apposta».
«Gillon, ho bisogno dei tuo aiuto», disse lui.
Gillon si sporse sul giornalista con tutta la sua incredibile altezza e con fermezza, e con l’accento più maestoso che riuscì a usare gli disse: «Fuori dai piedi!».
«Non può rivolgersi a me in questo modo» disse l’uomo del Telegraph. «Ho frequentato università private».
Dopo, non ci furono altre sceneggiate. Quando uscì su Moscow Road, i giornalisti sciamavano come fuchi alla ricerca della loro regina, i fotografi si arrampicavano gli uni sulle spalle degli altri per formare montagnole vacillanti e guizzanti di flash. Se ne stava lì, sbattendo le palpebre senza fissare nessuna direzione precisa, perso per un attimo. Non c’era possibilità alcuna che riuscisse a camminare fino alla macchina, parcheggiata a un centinaio di metri più giù lungo la strada, senza essere seguito dalle telecamere e dai microfoni e da uomini che avevano frequentato vari tipi di università ed erano stati mandati lì appositamente. Fu salvato dal suo amico Alan Yentob, filmaker e senior executive presso la Bbc. L’automobile della Bbc di Alan si accostò al marciapiede, proprio di fronte alla chiesa. «Sali», disse e così li condussero lontano dai giornalisti schiamazzanti. Girarono attorno a Notting Hill per un po’, fino a quando la ressa fuori dalla chiesa non si disperse e poterono tornare dove era parcheggiata la Saab. Lui e Marianne entrarono in macchina e all’improvviso si ritrovarono soli. «Dove andiamo?», chiese lui, anche se tutti e due conoscevano già la risposta.
Da qualche tempo Marianne aveva preso in affitto un piccolo appartamento nel seminterrato di un edificio sull’angolo sudovest di Lonsdale Square, a Islington, non lontano dalla casa di St. Peter Street, ufficialmente per usarlo per lavoro, ma in verità a causa delle crescenti tensioni tra loro. Pochissime persone erano a conoscenza del fatto che lei aveva quell’appartamento. Adesso avrebbe potuto offrire loro lo spazio e il tempo di fare il punto della situazione e prendere delle decisioni. Guidarono verso Islington in silenzio. Sembrava che non ci fosse niente da dire.
Era metà pomeriggio, ma quel giorno le loro difficoltà coniugali erano irrilevanti. Quello stesso giorno c’erano folle di persone che sfilavano per le strade di Teheran indossando maschere di carta con il suo volto e con gli occhi svuotati, così che lui sembrava uno dei cadaveri del film Gli uccelli, con le loro cavità oculari annerite, insanguinate, svuotate a colpi di becco dai volatili. Quello era il tema del giorno, quel giorno: il suo Valentino, tutt’altro che divertente, era indossato da quegli uomini barbuti, quelle donne velate, e quell’anziano uomo letale, agonizzante nella sua stanza, faceva la sua ultima scommessa per una sorte di gloria assassina.
Adesso che la giornata scolastica si era conclusa, doveva incontrare Zafar. Chiamò la sua amica Pauline Melville e le chiese di tenere compagnia a Marianne mentre era via. Pauline – attrice dallo sguardo vivace, dai gesti teatrali, dal cuore affettuoso, di sangue misto, piena di storie sulla Guyana – era stata sua vicina di casa a Highbury Hill all’inizio degli anni Ottanta. Arrivò subito, senza proferire parola, anche se era il suo compleanno.
Quando arrivò a casa di Clarissa a Zafar, la polizia era già lì. «Eccola», disse un agente. «Ci stavamo chiedendo dove fosse finito».
«Che cosa sta succedendo, papà?». Suo figlio aveva uno sguardo che non dovrebbe mai comparire sul volto di un bambino di nove anni.
«Gli stavo appunto dicendo - disse con tono brioso Clarissa - che ti sorveglieranno accuratamente fino a quando tutto questo non si sgonfierà. Andrà tutto bene». Poi abbracciò il suo ex marito come non aveva mai fatto nei cinque anni da quando si erano separati.
«Dobbiamo sapere quali potrebbero essere i suoi piani per l’immediato», disse un agente.
Prima di rispondere, lui rifletté. «Probabilmente andrò a casa» disse infine, e le posture irrigidite degli uomini in uniforme confermarono i suoi sospetti.
«No, signore, le sconsiglierei di farlo».
Allora riferì loro, come fin dall’inizio sapeva che avrebbe fatto, del seminterrato di Lonsdale Square dove lo stava aspettando Marianne. «Si tratta di un luogo che in genere lei non frequenta, signore?».
«Esatto, agente».
«D’accordo. Quando rientra, signore, per stasera non esca più, se non le dispiace. Sono in corso alcune riunioni e domani verrà informato delle decisioni prese, prima possibile. Fino ad allora, dovrebbe stare chiuso in casa».
Parlò con suo figlio, lo strinse a sè, decidendo all’istante che avrebbe raccontato al bambino il più possibile, dando a quanto stava accadendo la sfumatura più positiva che potesse; e decidendo che il modo di aiutare Zafar ad affrontare la situazione era farlo sentire quanto più possibile a conoscenza di essa, dargli una versione genitoriale alla quale potesse aggrapparsi quando l’avrebbero bombardato con ben altre versioni nel cortile della scuola o in televisione.
«Tornerai a trovarmi domani, papà?».
Scosse la testa. «Però ti chiamerò - gli disse - Ti telefonerò ogni sera alle sette. Se tu dovessi andare altrove- disse a Clarissa - per favore lasciami un messaggio in segreteria telefonica a casa e dimmi dove ti dovrò chiamare». Era l’inizio del 1989. Parole come pc, telefono cellulare, internet, WiFi, sms, e-mail, erano ancora da inventare o molto nuove. Lui non possedeva né un computer né un cellulare. Però possedeva una casa, e in quella casa c’era una segreteria telefonica alla quale lui poteva telefonare per ‘interrogarla’, nuovo uso di una vecchia parola, e ottenere, anzi no, ‘recuperare’ i suoi messaggi. «Le sette in punto - ripeté - Ogni sera, d’accordo?».
Zafar annuì, solennemente. «D’accordo, papà».
«Sì, figlio, è vero. Tu sei stato adottato».
Guidò verso casa, solo in auto. Le notizie alla radio erano tutte pessime. Khomeini non era soltanto un religioso molto potente. Era anche un capo di stato, che aveva ordinato l’omicidio di un cittadino di un altro stato, sul quale non aveva alcun tipo di giurisdizione. Oltretutto, al suo servizio aveva parecchi assassini, che in precedenza erano già stati usati contro i "nemici" della Rivoluzione iraniana, compresi quelli che vivevano fuori dall’Iran. Una volta Voltaire aveva detto che per uno scrittore sarebbe stata una buona idea vivere vicino a una frontiera internazionale così che se mai avesse fatto arrabbiare degli uomini potenti, gli sarebbe bastato attraversare la frontiera per essere al sicuro. Voltaire stesso lasciò la Francia per l’Inghilterra, dopo aver offeso un aristocratico, il Chevalier de Rohan, e rimase in esilio quasi tre anni. Tuttavia, vivere in un Paese diverso da quello dei propri persecutori non era più garanzia di sicurezza. Ormai esistevano gli "interventi extraterritoriali". In parole povere, ti venivano a cercare.
La notte a Lonsdale Square fu fredda, buia, e chiara. In piazza c’erano due agenti. Quando lui scese dalla macchina, finsero di non accorgersi di lui. Erano di pattuglia nel quartiere, perlustrarono la strada accanto all’appartamento per un centinaio di metri in ogni direzione. Lui sentì i loro passi anche mentre si trovava all’interno.
Si rese conto, in quello spazio dove risuonava il rumore dei passi, di non riuscire più a capire la propria vita o quello che la sua vita avrebbe potuto diventare. E pensò, per la seconda volta quel giorno, che avrebbe potuto non esserci molta più vita da comprendere.
Marianne si coricò presto. Lui le si infilò accanto nel letto, lei si girò verso di lui e si abbracciarono, rigidamente, come la coppia infelicemente sposata che erano. Poi, distesi separatamente e ciascuno con i suoi pensieri, non riuscirono ad addormentarsi.
1 - continua
Traduzione di Anna Bissanti