Corriere della Sera, 17 agosto 2022
Il Ferragosto all’Autogrill dell’Italia arrabbiata
Ma, in una giornata simbolica, un posto simbolico come l’autogrill che scavalca l’Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze può restituirci lo stato d’animo del Paese, che si può così sintetizzare: gli italiani sono incazzatissimi.
Tutti parlano solo di prezzi. Qualcuno entra al bar, legge – un euro e 30 il caffè, due euro il croissant, 6,50 il trancio di pizza, 7,90 la focaccia con la coppa —, sospira, impreca, esce. Una coppia ordina un Grantoast a 6,90, se lo fa tagliare in due, lo mangia in un angolo. Chi può sale al ristorante, al piano di sopra.
Al primo tavolo, un bambino biondo maleducatissimo sposta di continuo una sedia con stridore molesto; la cameriera ogni volta la rimette a posto, e lui la sposta di nuovo, nell’indifferenza dei genitori. Al secondo tavolo, una famiglia di colore pranza con macedonia e ananas. Al terzo tavolo, un padre cinquantenne cerca di consolare il figlio adolescente, deluso da lui e dalla vita per il fatto di consumare il pranzo di Ferragosto all’autogrill. «Guarda che il primo ristorante in cui sono stato in vita mia è questo – dice il signore al figlio, anzi al telefonino che il figlio tiene davanti agli occhi —. Avevo la tua età. Qui sotto sfrecciavano le macchine, proprio come adesso. C’era un gigantesco banco degli arrosti, i cuochi con il cappello bianco che affettavano un enorme tacchino, e mio papà, tuo nonno, che ha sempre amato la pittura, disse che sembrava un quadro barocco, l’immagine dell’abbondanza…». Il cinquantenne socchiude gli occhi, ha un attimo di commozione – suo padre dev’essere morto, forse da poco —, ma quando li riapre si ritrova di fronte il cellulare del figlio, e perde la pazienza: «Tu lo sai che tuo nonno ha provato la fame?! Hai idea di cosa rappresentava per lui quel tacchino dell’autogrill?».
Il ristorante del Cantagallo ha un’antica tradizione. Il 18 giugno 1973 si fermò qui il leader missino, Giorgio Almirante, con quattro militanti. Cuochi e camerieri rifiutarono di servirgli da mangiare. Almirante quel giorno aveva appetito ed era di ottimo umore: alle regionali in Friuli Venezia Giulia il Msi era cresciuto dal 5 al 7,5%. Così lui aveva preso prosciutto crudo e penne al sugo e stava aspettando cotechino e zampone, quando gli portarono il conto – 8.900 lire – e gli dissero di andarsene. Almirante si alzò, salì in macchina, proseguì verso Firenze, si fermò all’autogrill di Roncobilaccio, ordinò il secondo, lo mangiò senz’altri disturbi; poi telefonò alla polizia per fare denuncia.
Oggi, se tra i tavoli si appalesasse la Meloni, il pranzo probabilmente glielo offrirebbero gli altri commensali. Secondo un sondaggio empirico durato tutto il giorno, la Fiamma tricolore veleggia tra l’85 e il 90%. Un po’ tutti i viaggiatori di Ferragosto si dicono indignati e disgustati dai politici, ma di lei dicono in sintesi: «È la sola che è sempre stata all’opposizione. La sola che non abbiamo ancora provato». Oggi però non c’è il cotechino e neppure lo zampone, bensì il «piatto unico bilanciato»: un quarto cereali – riso nero integrale e basmati —, un quarto pesce, il resto verdure che «saziano e donano colore al piatto».
Mi sposto al parcheggio dei camionisti. Su un Tir è dipinto un gigantesco ritratto di Gesù. Un altro ha sulla fiancata un Cristo coronato di spine. Poi c’è il camion di Amazon. Un crocchio di conducenti sta parlando dei prezzi del diesel. Mi accolgono con viva simpatia e profonda stima: «Giornalisti infami! Servi del sistema! Padron comanda asino trotta!». C’è però un camionista che vuole parlare. Si chiama Guglielmo. Mi prende le mani tra le sue: «Vedi queste cicatrici? Le senti? Sono i mozziconi di sigaretta. Servono a tenermi sveglio: quando sto per addormentarmi, la sigaretta accesa mi brucia le dita, e io continuo a guidare. Il problema sono i romeni. Con i romeni non ce la posso fare. Io posso guidare anche sedici ore di fila, senza mangiare né dormire, sai? Ma dopo sedici ore mi devo fermare per fare la pipì. Il romeno invece può stare anche un giorno intero senza mangiare né dormire né fare la pipì». Guardi Guglielmo che il romeno è un essere umano come noi… «No no, il romeno è un concorrente imbattibile. Noi camionisti italiani non ce l’abbiamo con gli stranieri, neppure con i negri. Ma facciamo una vita terribile, soffriamo tanto per mantenere le nostre famiglie. Scrivilo: chiediamo tariffe agevolate per gasolio, autostrade, assicurazioni».
«Guarda che la tariffa agevolata per il gasolio ce l’abbiamo già». La voce viene dal camion con il Gesù coronato di spine. Porta pesche e meloni da Gela a Verona, quindi può viaggiare anche di Ferragosto. Lo guida Salvatore. «Io ogni quattro ore e mezza, cascasse il mondo, mi fermo. Però il collega ha ragione, il mestiere è duro ed è sempre peggio».
Ai camerieri che avevano rifiutato di servire Almirante arrivarono centinaia di telegrammi di plauso da tutta Italia, il primo firmato da Enrico Vaime, l’autore di Canzonissima: «La mia ammirazione e solidarietà. Bravi!». Tra i camionisti, la percentuale per la Meloni sale al 90-95%. Il pericolo neofascista non è molto sentito, in particolare da Guglielmo: «Mio padre e mio nonno si sono fatti seppellire in camicia nera, sai?». Gli chiedo di poter vedere il suo camion, dove dorme. Non ci sono i calendari con le modelle nude come da stereotipo, solo l’immagine di padre Pio e la foto dei figli. I panini li ha portati da casa. «Hai notato che non esistono più le trattorie per i camionisti? Sai perché? Perché i soldi per mangiare in trattoria i camionisti non li hanno più».
Per uscire dal bar si passa obbligatoriamente attraverso il paese della cuccagna. Gigantesche confezioni di pop-corn, di chupa-chups, di biscotti; boccioni da due litri di prosecco, taniche da mezzo chilo di patatine. Piccolo angolo per i libri; ma dalla pandemia non si vendono più i giornali. Le cuffiette per i telefonini possono costare anche 32 euro e 99; qualcuno ha risolto il problema dei controlli rompendo la scatola e intascando il contenuto. Il bambino biondo maleducatissimo grida a pieni polmoni perché vuole un gigantesco pelouche a forma di ranocchio, ma il padre non intende comprarlo, anche perché costa come la paga giornaliera di un impiegato. I passanti protestano per le strida, il padre molla uno scappellotto al figlio; la madre lo difende. Ci sarebbe anche un cane minuscolo che abbaia ininterrottamente da cinque minuti; ma di lui nessuno osa lamentarsi.
Al bar ristorante tutti parlano solo di prezzi. Qualcuno entra, sospira, impreca, esce. Fuori dal minimarket
c’è il vigilante, il lavoro non gli manca: non si ha idea
di quanti trucchi inventino gli italiani per rubare
Eppure, a restare lì tutto il giorno, accanto alla rabbia e al malumore viene fuori anche l’umanità degli italiani. Una madre anziana si prende cura con amore del figlio nano, si alza sui tacchi per prendergli il pacchetto di Togo sull’ultimo scaffale. Una mamma allatta la sua bambina sul gradino dell’uscita. Coppia gay con cagnolino in una cesta. Tante comitive di donne che viaggiano sole. Un papà organizza con il figlio uno scherzo alla mamma, che si è attardata nel paese della cuccagna e deve ancora uscire: si nascondono dietro l’angolo e le faranno bau. Passano un cinese con la maglietta del Jova Beach party, due poliziotti, un addetto bengalese alle pulizie, poi finalmente la mamma: «Bau!». «Echecazzo!». La mamma l’ha presa malissimo: «Siete du’ bischeri, e che so’ scherzi da fare?!».
All’uscita c’è anche il vigilante. Il lavoro non gli manca: non si ha idea di quanti trucchi inventino gli italiani per rubare. Le famiglie si affidano agli insospettabili, nonne e bambini; ma è accaduto che una signora uscisse con la tanica di patatine sotto il golfino, a simulare una gravidanza, tipo la signorina Silvani con il televisore – «incinta di nove pollici!» – nel secondo tragico Fantozzi.
Cantagallo un tempo era un Mottagrill. Il cavaliere del Lavoro Angelo Motta vi volle una piccola chiesa, «a fianco del luogo di ristoro, così che questi non sia soltanto ristoro fisico». L’edificio è dedicato coerentemente a sant’Angelo ma anche a sant’Ambrogio e san Gennaro, «protettori delle grandi Città che l’Autostrada unisce» (Milano e Napoli), e pure a san Francesco e santa Caterina, patroni d’Italia, e infine a san Cristoforo, protettore degli automobilisti. È un luogo pieno di poesia, con una madonnina, i lumini, e un’urna in cui «si prega di non mettere denaro ma preghiere».
In tutta la giornata nella chiesetta sono entrati solo un bambino di nome Gianfranco – «papà posso accendere una candelina?» – e una famiglia di filippini, per mangiare un panino al fresco.
Sul prato a fianco corrono felici i cani. Un tempo all’autogrill molti venivano abbandonati. Quest’estate sulla Milano-Venezia è stato abbandonato un ragazzo di sedici anni, di origine albanese. I genitori non si sono fatti vivi, il Comune di Cessalto, Treviso, nel cui territorio ricade l’autogrill, ha stanziato 16 mila euro per il suo mantenimento, sino alla maggiore età. Non è la prima volta. A Ferragosto del 2000 all’autogrill della Milano-Varese fu trovato un bambino di pochi giorni, con un biglietto: «Mi chiamo Angelo, prendetevi cura di me». Poi ci sono i dimenticati. Pane e tulipani, il caso cinematografico sempre del 2000, è la storia di Rosalba – l’attrice era Licia Maglietta – abbandonata da marito e figli in autogrill. Spiegano a Cantagallo che ogni tanto succede ancora. Però adesso ci si avverte con il telefonino, e i ricongiungimenti sono rapidi.
Non si vedono più i venditori che con aria da cospiratore ti informavano che dal tal camion era caduto un carico di televisori o di telefonini: la gente non ci casca più. Questi però erano anche luoghi di gioia: certe notti, cantava Ligabue, «al primo autogrill c’è chi festeggerà». Guccini sognava di prendere la mano della ragazza che «mescolava birra chiara e seven up». Più prosaicamente, si diceva che alla Lotteria Italia vincessero sempre biglietti venduti all’Autogrill. Ogni tanto passa ancora un pullman di ultrà a devastare tutto; fu in un altro autogrill che l’agente Spaccarotella sparò e uccise un tifoso laziale, Gabriele Sandri, divenuto martire di tutte le curve compresa quella romanista.
Origlio la conversazione tra due poliziotti – uno con l’accento sardo, l’altro napoletano – e un addetto in tuta gialla di Autostrade. Il tema sono gli automobilisti che si comportano male, sfrecciano dove dovrebbero procedere a passo d’uomo, fanno il pieno e scappano senza pagare, oppure lasciano la macchina alla pompa dopo aver fatto il pieno e vanno a prendere il caffè. Dice il poliziotto sardo: «Delle due l’una: o gli tagli le gomme, e non mi pare il caso; o fai la foto alla targa, e ce la segnali. O li becchiamo, ma è difficile, oppure li becca il tutor, se vanno troppo forte…». «Sì, ma tanti sono stranieri, e del tutor che gli importa?».
Le toilette sembrano quelle di una clinica svizzera: pulitissime (i cartelli avvertono che la mascherina è obbligatoria, ma in tutta la giornata non ne ho vista indossata una, tranne che dai lavoratori dell’Autogrill. Che, per inciso, danno del lei a tutti; ma quasi tutti danno loro del tu). Soltanto su un muretto discosto una scritta promette, come ai vecchi tempi, prestazioni sessuali dettagliate. Per pura curiosità giornalistica chiamo il numero di cellulare indicato. Mi risponde una voce più rassegnata che arrabbiata: «Di nuovo? Soltanto oggi è il quarto che telefona. Lo volete capire o no che mi hanno fatto uno scherzo?».
Anche gli addetti al distributore rifiutarono di fare il pieno ad Almirante. Tre giorni dopo, sempre all’ora di pranzo, arrivò la spedizione punitiva. Una trentina di fascisti presero a ceffoni benzinai, cuochi, camerieri, e pure due poliziotti che tentarono di fermarli. Poi scapparono, ma come in un film di Alberto Sordi una vecchia 600 si fermò dopo pochi metri: i poliziotti arrestarono il conducente e denunciarono gli altri a piede libero, tra cui un deputato missino di Modena.
Nel 1981 l’autogrill andò a fuoco. «Io sono stato assunto qualche mese dopo. Si diceva che fossero stati i fasci. Ma sono le voci che mettono in giro i comunisti». Il benzinaio che racconta si chiama Fabio. Anche lei vota Meloni secco? «Diciamo che io non sono comunista. Però non si fidi di quel che le dicono. La gente parla; ma poi a Bologna restano rossi, e altrove democristiani». Qui, in direzione Firenze, il diesel costa 2 euro e 12 al litro, la benzina 2 e 15 (in direzione Nord i prezzi sono un po’ più bassi: diesel un euro e 97, benzina 1 e 96). Molti ovviamente preferiscono il self. Fabio ha un teoria: «In Italia i soldi ci sono ancora. Ma la gente ha paura; quindi non spende. Quando ho cominciato, 41 anni fa, questa era una delle più grandi stazioni di servizio d’Europa: 26 milioni di litri di carburante all’anno. Il giorno della chiusura della Fiat gli operai partivano verso Sud, e c’erano code di un’ora per fare benzina. Ora siamo a 15 milioni di litri». Davvero c’è chi non paga? «Ci sono sempre stati. Un tempo si riusciva a tirar fuori la benzina dai serbatoi; adesso non si può più». E allora? «Allora il più delle volte li lasci andare. Quelli te lo gridano dietro: “Fammi causa!”. Ma fare una denuncia costa molto più di un pieno di benzina. Sa chi sono i peggiori?». Chi sono? «Gli stranieri. Non salutano, ci trattano come schiavi, sporcano per terra. Si comportano come a casa loro non farebbero mai. Quelli dell’Est, poi… gli slavi, i romeni…». Pure lei ce l’ha con i romeni? «Non ce l’ho con nessuno, ma li vedi con macchinoni da centomila euro, e pensi a quando da ragazzi andavamo da loro carichi di jeans e calze di nylon…Intendiamoci: eravamo più poveri di adesso. Ma si andava ancora dal meno al più. E andare dal meno al più è meraviglioso. Andare dal più al meno, invece, fa schifo».