Corriere della Sera, 17 agosto 2022
La parabola di Monica Cirinnà
«Ma che, davvero?», si sente dire ai piani alti del Partito democratico in piena notte, quando la presa di posizione di Monica Cirinnà sul rifiuto a correre in «territori inidonei ai miei temi» rimbalza tra un sito web e l’altro. Passi per la lamentela sul «collegio perdente», passi la rabbia per essere stata candidata in territori con «un forte radicamento del centrodestra», ma come si fa a definire «inidonei ai miei temi» — che s’immaginano essere i diritti civili e le campagne in difesa del mondo Lgbtq+, che l’hanno giustamente resa celebre ovunque per l’approvazione della legge sulle unioni di fatto — dei luoghi popolati da persone che si apprestano a votare? «Non ci posso credere. Neanche un avversario della ludopatia candidato a Las Vegas si sarebbe espresso in questi termini», lamenta ad alta voce un dirigente del partito. L’incredulità aumenta poche ore dopo: ci ha ripensato. «Non per interesse — giura lei —, ma per amore e rispetto di una comunità. Letta chiacchiera di occhi di tigre, io li tiro fuori». Si dice pronta a «combattere come l’ultimo dei gladiatori. È l’unico modo per non sottrarmi alla battaglia». Anche in «territori — insiste — per i quali non sono adatta».
Più che la direzione del Pd — la sua forza politica, dalla quale, lamenta Cirinnà, «ho ricevuto uno schiaffo» — sembra che sia il mese di agosto ad avercela con la senatrice uscente (e molto difficilmente rientrante). Un anno fa, proprio di questi tempi, il più sfortunato ritrovamento di banconote della storia del denaro contante si era abbattuto proprio sulla sua villa di Capalbio, innescando una serie di colpi di scena imprevisti e decisamente imprevedibili: dalle forze dell’ordine che circondavano il luogo del ritrovamento, la cuccia del cane; a quello stesso cane considerato tutt’altro che di compagnia per la cameriera «strapagata, messa in regola e con i contributi Inps» che di punto in bianco — aveva confessato la senatrice al Corriere della Sera — aveva alzato il telefono per dire che se ne andava. «Sto facendo la lavandaia, l’ortolana e la cuoca», Cirinnà dixit.
Chissà quanto quei sacrifici, ricordati oggi a un anno di distanza, di fronte alla prospettiva concreta di perdere il posto al Senato, vengano visti adesso come ricordi quasi dolci. E chissà se le dolenti note della canzone di Bruno Martino, «odio l’estate», eterna colonna sonora di quella porzione significativa di italiani per cui la bella stagione si è trasformata in una specie di fobia sentimentale, risuonano oggi nel perimetro della villa di Capalbio, che la senatrice Cirinnà condivide col marito Esterino Montino.
Le foto del loro matrimonio, parecchi anni addietro, li hanno identificati, nell’immaginario degli amanti di cose politiche, come una specie di riedizione in chiave progressista del sodalizio amoroso tra Sue Ellen e J.R., la coppia per eccellenza della soap opera Dallas. Entrambi «pezzi da novanta» del Pd del Lazio, entrambi appassionati di agricoltura rigorosamente biologica, entrambi decisamente inclini a indossare più del lino che del cotone, e più dei cappelli alla texana che nella versione da pescatore, oggi sono l’oggetto delle riflessioni di chi pensa che la politica, come la vita, dà e poi toglie, regala ma poi si riprende indietro. I soldi della cuccia del cane, ventiquattromila euro, quelli no, non sono mai più stati restituiti: Cirinnà avrebbe voluto darli in beneficienza ma un Tribunale ha negato l’operazione. E in certi casi non sono ammessi ripensamenti, come quello che ha fatto lei con il «collegio inidoneo» offertole dal Pd: «No, grazie», anzi, «sì, combatterò come l’ultimo dei gladiatori».