Corriere della Sera, 14 agosto 2022
Il fiuto per la scienza di Proust
«Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo». È forse il passaggio più famoso di quel romanzo che lo stesso Marcel Proust paragonò alla costruzione di una cattedrale e che lo impegnò dal 1906 al 1922: Alla ricerca del tempo perduto. Oltre un secolo dopo gli scienziati hanno scoperto che la descrizione era incredibilmente accurata. In uno studio pubblicato su Cell da diversi ricercatori della Harvard Medical School emerge non solo che l’olfatto è da noi sottovalutato (esistono almeno dieci diverse dimensioni nello spettro degli odori contro le cinque del palato) ma anche che questo senso ha una sorta di percorso privilegiato dentro il cervello. In particolare riaccende proprio i ricordi. Non è la prima volta che la cultura umanistica anticipa le scoperte scientifiche. Nel caso di Proust una spiegazione plausibile di questa capacità visionaria potrebbe risiedere nel metodo. L’indizio è nel titolo: ricerca, come nella scienza. A volerla cercare la controindicazione della «scienza di Proust» è che la poesia delle madeleines si faccia un po’ insipida: secondo lo stesso autore francese spiegare dei versi è come lasciare il cartellino del prezzo su un regalo. Meglio non dimenticare un pizzico di mistero, anche a colazione.