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 2022  agosto 06 Sabato calendario

Intervista a Don DeLillo

Don DeLillo è da sempre un appassionato del rapporto tra immagine e parola scritta e, pur coltivandola necessità di esaltare le potenzialità espressive della seconda, ritiene che sia il cinema il linguaggio artistico che ha caratterizzato in maniera più significativa il Novecento. È interessato sia a quello narrativo che a quello sperimentale, come anche alla video art:La grande bellezza ePsycho dilatato a ventiquattro ore da Douglas Gordon.
Il cinema ha ricambiato in maniera crescente la sua passione: dopo Looking at the dead (diretto da Jean-Gabriel Périot nel 2011) eThe rapture of the athlete assumed into heaven
(del regista Keith Bogart, 2007) tratti dai suoi racconti, oltre a
Game 6, girato da Michael Hoffman e basato su una sua sceneggiatura, è stata la volta diCosmopolis di David Cronenberg eNever ever di Benoît Jacquot.
È notizia di questi giorni che
White noise, il suo libro più bello e sofferto insieme aUnderworld,aprirà la prossima Mostra del cinema di Venezia e, a seguire, ilfestival di New York: diretto da Noah Baumbach e interpretato da Adam Driver e Greta Gerwig, è uno dei film più attesi della stagione, per il grande talento delle personalità coinvolte nel progetto e una serie di traversie lavorative che hanno visto il budget aumentare da 80 a 150 milioni di dollari, la sostituzione del direttore della fotografia a metà delle riprese e la morte di tre componenti della troupe per motivi estranei alla lavorazione: un suicidio, un infarto e un decesso per overdose.
Intorno al lungometraggio si è creato quindi un interesse morboso, rinforzato dal fatto che è stato considerato per molto tempo impossibile adattare questo capolavoro postmoderno, nel quale DeLillo minimizza gli snodi narrativi e quindi tutto ciò che prevede l’ortodossia drammaturgica, per immortalare un affresco di malessere suburbano di un microcosmo consumista e vuoto.
«Non l’ho ancora visto», racconta con voce stanca, «ma solo perché la mia salute non mi consente di muovermi: dall’inizio del Covid limito all’essenziale le uscite di casa e me ne rammarico: sarei andato volentieri a vederlo alla prima aVenezia».
Ha partecipato allasceneggiatura?
«No, ma ho fiducia nel lavoro di Noah Baumbach, che ha già dimostrato qualità sia come sceneggiatore che come regista».
Crede sia l’atteggiamento che debba tenere un autore nel caso di un adattamento?
«Non credo ci sia una regola fissa: io appartengo alla categoria di chi pensa che il film è un’opera autonoma. È un medium molto differente e, per quanto mi riguarda, ho a cuore che venga preservato il senso del libro e il più possibile la trama; conosco però colleghi, anche importanti, che una volta aver venduto i diritti sidisinteressano completamente al film. Ce ne sono poi altri che seguono minuziosamente la sceneggiatura e le riprese per garantirsi che il risultato sia assolutamente fedele al loro testo».
Ritiene esistano romanzi impossibili da adattare sullo schermo?
«Non utilizzerei il termine “impossibile”: io penso che i romanzi la cui forza è nell’uso della parola e nel modo in cui è cesellata una frase, trovino la loro compiutezza artistica al cinema solo con sceneggiatori e registi che non si limitano a illustrare ma hanno il talento di rendere le stesse emozioni attraverso le immagini.
Necessitano questo tipo di talentoanche gli adattamenti di romanzi basati sul racconto dell’intimità delle persone e sui loro conflitti interiori. Non è un caso che esistano pochi adattamenti riusciti da Dostoevskij o anche da Proust».
Quali sono a suo avviso degli esempi di adattamenti riusciti?
«I primi film che mi vengono in mente sono Il Gattopardo di Luchino Visconti eI morti di John Huston, il quale è stato un grande specialista di adattamenti. I due registi hanno operato scelte artistiche antitetiche: nel primo caso sono tagliati gli ultimi capitoli in cui si narra la morte del principe e la decadenza della famiglia, ma questo senso di caducità e prossimità alla fine viene reso perfettamente lungo tutto il film.
Nel secondo la fedeltà è assoluta, al punto che nella scena conclusiva Huston decide di far leggere la meravigliosa pagina finale del racconto di Joyce mentre sullo schermo si vedono immagini della neve che scende “sui vivi e sui morti”».
Le viene in mente un film che riesce a essere potente sul piano delle immagini ma debole su quello dei dialoghi?
«Io amo Deserto rosso, e in generale Antonioni, ma credo che l’immagine di Monica Vitti con il cappotto verde e quelle dellanatura contaminata rendano il senso di angoscia e alienazione in maniera più efficace di una battuta come “mi fanno male i capelli”».
Non tutti i romanzieri hanno una passione come la sua per il cinema. Come è nata?
«Vedendo i grandi film degli anni Sessanta: Fellini, Kurosawa, Bergman, registi potentissimi sia sul piano dell’immagine che dei dialoghi. Ma amo in egual misura cineasti che hanno rivoluzionato il linguaggio, come John Cassavetes».
Ritiene che il linguaggio delle immagini abbia cambiato quello della parola scritta?
«Il cinema, e ora le serie televisive, sono ormai patrimonio del nostro immaginario collettivo, ed è inevitabile che finiscano per influenzare la nostra creatività.
Tuttavia io non sono tra coloro che lamentano la decadenza o addirittura la scomparsa di una forma di espressione: non mi sfugge il minore interesse che si ha, negli ultimi decenni, nei confronti del romanzo, ma penso che le immagini in movimento rappresentino una nuova declinazione del linguaggio e quindi una fonte alla quale attingere senza pregiudizi e un’opportunità con la quale confrontarsi».