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 2022  agosto 10 Mercoledì calendario

L’export del carbone finanzia il regime talebano

Si parte con il carbone, cavalcando la crisi energetica e la domanda di combustibili alternativi al gas naturale sempre più caro. Poi sarà la volta di rame, zinco, bauxite, oro, cromo, per non parlare di litio, uranio, petrolio, metano nonché delle ricercatissime terre rare.
Nonostante sia poco sfruttato da sempre, il sottosuolo dell’Afghanistan nasconde un tesoro in materie prime che secondo alcune stime internazionali potrebbe valere oltre 3 mila miliardi di dollari. Una fonte di ricchezza che ora il regime dei talebani - tornati al potere a Kabul, dopo la ritirata degli Usa e delle forze occidentali - ha deciso che non deve più restare inutilizzato all’interno delle montagne.
Non fosse altro perché è l’unica via per rilanciare la disastrata economia dello stato asiatico, alle prese con una costosissima ricostruzione, una crisi economica che l’anno scorso è costata il 20% del Pil e per dotare il governo delle risorse necessarie per rilanciare le finanze pubbliche.
Come ha messo in evidenza di recente ilFinancial Times , gli afghani sono partiti dal carbone, che sta trainando le esportazioni dello stato islamico: secondo una dato citato dalle Nazioni Unite, le vendite all’estero dovrebbero arrivare per la fine dell’anno a 2 miliardi di dollari, quasi il doppio di tre anni fa, quando si erano fermate a 1,2 miliardi. Il carbone è più facile da estrarre e l’ubicazione di molte miniere è nota da tempo: ce ne sono circa una ottantina e almeno una ventina sono tornate in attività (dove spesso vengono usati anche bambini, come denunciano le associazioniumanitarie). Gli afghani sfruttano, ovviamente, la domanda che rimane molto forte nei Paesi confinanti, a partire dalla Cina (che con la Russia sta finanziando e co-investendo nella ripresa delle attività minerarie) e dalPakistan. Il governo di Islamabad ne sa qualcosa, perché ha inizio luglio si è visto presentare una fattura per le forniture di carbone salita da 90 a 200 dollari a tonnellata. Sempre meglio del prezzo sul mercato internazionale, attorno ai 370 dollari a tonnellata. Comunque una brutta botta visto che il Pakistan sta affrontando una crisi valutaria e aveva cercato di pagare in moneta locale, essendo corto di dollari.
Le associazioi umanitarie temono anche danni irreversibili all’ambiente: per le attività minerarie sono necessarie grandi quantità di acqua e il paese, anche per il riscaldamento globale, è in perenne lotta con problemi di siccità e mancanza di fonti. Dopo l’addio degli occidentali, stanno prendendo sempre più piede nel paese sia i russi, per motivi strategici, ma soprattutto i cinesi che vorrebbero fare dell’Afghanistan uno dei punti di snodo del grande progetto commerciale della nuova Via della Seta e per assicurarsi le grandi riserve di materie prime, soprattutto litio e terre rare, strategiche nelle tecnologie delle rinnovabili, tlc e high tech.
Ma le prove generali si fanno con il carbone, con il governo di Kabul che sempre nel luglio scorso ha deciso che non ci saranno più prezzi di favore nemmeno ai Paesi amici: «Sfrutteremo le noste riseve a prezzi internazionali, imponendo dazi sull’esportazione”. Detto e fatto: i dazi sono saliti del 30 per cento.