La Stampa, 9 agosto 2022
Razzismo da horror. Esce "Nope"
Gli incontri ravvicinati sono terrorizzanti, i confini della realtà ampiamente superati e i tentativi di stabilire rapporti con i nuovi arrivati, come in The Arrival di Denis Villeneuve, assolutamente fallimentari. Il nuovo, attesissimo, horror fantascientifico di Jordan Peele, Nope, tenta il triplo salto mortale di coniugare diversi generi cinematografici con le tematiche riguardanti l’ambiente, la discriminazione razziale, la società spettacolarizzata, la dittatura dell’immagine. Un obiettivo temerario che, stando ai risultati del box-office americano nel primo week-end di programmazione, è stato subito raggiunto, con un incasso di 44 milioni di dollari che ha fatto scivolare al secondo posto Thor: Love and Thunder e al terzo Minons 2 Come Gru diventa cattivissimo. Per il lancio italiano (il film, girato in Imax, è nelle sale da giovedì con Universal) sono arrivati a Roma i protagonisti Keke Palmer e Daniel Kaluuya, premio Oscar per Judas and the Black Messiah, ma, per comprendere lo spirito del progetto, bisogna immergersi nel credo visionario dell’autore, vincitore della statuetta nel 2017 per la sceneggiatura di Scappa- Get out e ormai considerato inventore del neo-horror afroamericano: «Ero partito – spiega Peele – dall’idea di offrire agli spettatori l’esperienza immersiva di trovarsi in presenza di un Ufo. Poi l’idea si è ampliata, mi interessava creare un grande spettacolo, qualcosa che promuovesse la mia forma d’arte preferita e il mio modo preferito di guardarla, ovvero il cinema in sala».
Al centro della storia, in un ranch californiano, Oj (Kaluuya) e Emerald (Palmer), un fratello e una sorella che di mestiere addestrano cavalli e che, in qualche modo, devono rinsaldare il loro legame dopo che la scomparsa del padre, ucciso da una singolare cascata di detriti piovuti dal cielo, ha acuito i problemi finanziari e, soprattutto, la distanza delle loro rispettive aspirazioni. Emerald sogna di sfondare a Hollywood, Oj inizia a vendere cavalli, anche a Ricky «Jupe» Park (Steven Yeun), un ex-bambino star che, di recente, ha aperto un parco nella zona. Ma è proprio dai quadrupedi che iniziano ad arrivare i primi segnali di una catastrofe imminente, ed è il desiderio di trarne profitto, filmando quelle strane manifestazioni e sperando che il video diventi un successo, a provocare i guai peggiori: «Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura – spiega il regista – ho cercato di scavare nella natura di quello che consideriamo spettacolo, nella dipendenza che crea e in quella forma insidiosa di bisogno di attenzione da cui tutti possiamo essere contagiati». A chi gli chiede qual è stata la principale fonte di ispirazione per Nope, Peele cita il western, i racconti ambientati nel deserto, la fantascienza classica e poi il regista preferito, Brian De Palma: «Abbiamo cercato di confezionare un blockbuster estivo, guardandolo ognuno può trovare il suo modo di divertirsi, qualcuno avrà voglia di discutere con gli amici dei risvolti sociali della storia, qualcun altro vorrà semplicemente godersi due ore di evasione. E comunque se, solo pochi anni fa, qualcuno mi avesse detto che avrei potuto disporre dei finanziamenti degli studios per girare i film che voglio, avrei pensato che si trattasse uno scherzo».
Pur di immergersi nelle suggestioni di Nope, nell’atmosfera sospesa densa di rumori alieni e presagi inquietanti, Daniel Kaluuya ha rinunciato a recitare nel sequel di Black Panther: «Il regista mi ha coinvolto nel progetto dall’inizio e questo cambia tutto perché ti fa sentire giusto per il ruolo fin dal primo ciak. Prima delle riprese abbiamo parlato tantissimo e, quando sono arrivato sul set, ho subito pensato “cavolo, questo è un fottuto film d’azione, allora facciamo Bruce Willis"». Il rapporto con Peele ha permesso margini di improvvisazione: «Tra di noi c’è grande collaborazione, Jordan è molo attento nello scegliere interpreti che, all’occorrenza, possano inventare sul momento, è un modo per mantenere alta l’attenzione di noi attori e per abituarci a comunicare un senso di spontaneità».
Attrice da quando era bambina, cantante, protagonista di serie come Scream e Scream Queens, Keke Palmer si augura che il film spinga il pubblico a riflettere «sul valore, nella vita reale, dei rapporti tra fratelli e sorelle che spesso tendiamo a dare per scontati. Dovremmo sentirci garantiti da quei legami e non così tesi verso la ricerca della popolarità. Il film fa anche riflettere su quanto sia diventato facile per tutti noi trovarci a strumentalizzare le cose belle, che ci attraggono».