La Stampa, 9 agosto 2022
Polvere di diamante nell’atmosfera per salvare la Terra
Keutsch è un uomo massiccio con morbidi capelli neri e un musicale accento tedesco (è cresciuto vicino a Stoccarda). In una bella giornata di fine inverno sono andata a fargli visita nel suo ufficio a Cambridge, che è decorato con foto scattate da e raffiguranti i suoi figli. Formatosi come chimico, Keutsch è uno degli scienziati di punta del Solar geo engineering Research Program di Harvard, un progetto finanziato in parte da Bill Gates.
La premessa alla base della geoingegneria solare – o, come viene chiamata in toni meno inquietanti, «gestione delle radiazioni solari» – è che se i vulcani possono raffreddare il mondo possono farlo anche gli uomini. Basterà spedire un fantastiliardo di particelle riflettenti nella stratosfera e il pianeta verrà raggiunto da una minore quantità di luce solare. Le temperature smetteranno di salire – o almeno saliranno più moderatamente – e il disastro sarà scongiurato.
Perfino nell’era dei fiumi elettrificati e dei roditori riprogettati la geoingegneria solare può sembrare fantascienza. È stata descritta come «pericolosa oltre ogni immaginazione».
«Mi sembrava una prospettiva completamente folle e abbastanza sconcertante», mi ha confessato Keutsch. A spronarlo è stata la paura. «Mi spaventa l’idea che tra dieci o quindici anni la gente possa scendere in strada e chiedere a chi ci governa di intervenire subito», ha continuato. «Abbiamo il problema della cattura integrata di CO2 che non può essere risolto in breve tempo. Pertanto, se la gente inizia a fare pressione, il mio timore è che l’unica strategia disponibile sarà l’applicazione della geoingegneria alla stratosfera. E ho paura che a quel punto sarà troppo tardi per iniziare a fare ricerche, perché implementare una tecnologia del genere significherebbe interferire con un sistema estremamente complesso. Senza contare che molti non sarebbero d’accordo».
«All’inizio, stranamente, non ero preoccupato come adesso – ha aggiunto qualche minuto dopo -. Perché l’idea che la geoingegneria potesse diventare realtà mi sembrava molto remota. Con gli anni, però, vedendo che le iniziative per salvaguardare il clima languivano, ho cominciato ad avere paura che potesse accadere sul serio. E la cosa mi mette molta ansia».
La stratosfera può essere immaginata come il secondo balcone della Terra. Si trova al di sopra della troposfera, dove si formano le nuvole, soffiano gli alisei e impazzano gli uragani, e sotto la mesosfera, che è lo strato in cui le meteore si vaporizzano. L’altezza della stratosfera varia a seconda della stagione e della latitudine; in soldoni, all’equatore la base della stratosfera si trova circa diciassette chilometri sopra la superficie, mentre ai poli è situata molto più in basso, approssimativamente a dieci chilometri di distanza dalla superficie della Terra. Dal punto di vista della geoingegneria l’aspetto chiave della stratosfera è che è molto stabile – molto più della troposfera – e anche ragionevolmente accessibile. I jet di linea volano spesso nella parte più bassa della stratosfera per evitare turbolenze, mentre gli aerei da ricognizione volano più al centro, per non scontrarsi con i missili terra-aria. I materiali iniettati nella stratosfera all’altezza dei Tropici tenderanno a spostarsi verso i poli e, dopo qualche anno, a ricadere sulla Terra.
Poiché l’obiettivo della geoingegneria solare è ridurre la quantità di energia che raggiunge la Terra, qualunque tipo di particella riflettente, almeno in teoria, dovrebbe andare bene. «Il materiale migliore è probabilmente il diamante – mi ha spiegato Keutsch -. I diamanti assorbirebbero zero energia. Così facendo ridurrebbero al minimo i cambiamenti nelle dinamiche della stratosfera. Inoltre sono estremamente non-reattivi. Il fatto che sia un’operazione costosa… non mi interessa. Se dovremo realizzarla su vasta scala per risolvere un grosso problema ci inventeremo qualcosa».
L’idea di sparare diamanti nella stratosfera mi è sembrata magica, un po’ come cospargere il mondo di polvere fatata. «Ma bisogna tenere in conto che tutto il materiale torna sulla Terra – ha proseguito Keutsch -. Ciò significa che la gente inalerà quelle minuscole particelle di diamanti?».
«Molto probabilmente sarebbero così piccole da non creare problemi. Ma per qualche motivo la cosa non mi piace». Un’altra possibilità sarebbe spruzzare massicce quantità di anidride solforosa. Anche qui le controindicazioni non mancano. Caricare la stratosfera di anidride solforosa contribuirebbe a generare piogge acide. Aspetto ancora più importante, lo strato di ozono potrebbe esserne danneggiato. In seguito all’eruzione del Pinatubo, avvenuta nelle Filippine nel 1991, si assistette a un breve calo delle temperature di circa 0,5 °C. Nei Tropici i livelli di ozono nella parte più bassa della stratosfera si ridussero di un terzo.
«Forse non è una frase felice, ma è meglio prendere la strada maestra», ha detto Keutsch. Tra tutte le sostanze utilizzabili lo scienziato ha mostrato una predilezione per il carbonato di calcio. In una forma o nell’altra il carbonato di calcio è presente ovunque: nelle barriere coralline, nei pori del basalto, nel fondo melmoso degli oceani. È anche il componente principale del calcare, una delle rocce sedimentarie più comuni al mondo.
«Ci sono enormi quantità di polvere calcarea disperse nella troposfera, dove viviamo noi» ha osservato Keutsch. «Il che rende il carbonato di calcio molto allettante». «Ha proprietà ottiche quasi ideali – ha continuato -. Si dissolve nell’acido. Perciò posso affermare con certezza che non avrebbe un impatto dannoso sull’ozono come l’acido solforico. I modelli matematici hanno confermato i vantaggi del minerale», mi ha poi spiegato. Ma finché il carbonato di calcio non verrà effettivamente spedito nella stratosfera sarà difficile stabilire quanta fiducia si possa riporre nei modelli. «Non c’è altra soluzione», ha aggiunto.
Il primo rapporto governativo sul riscaldamento globale – sebbene il fenomeno non venisse ancora chiamato così – fu consegnato al presidente Lyndon Johnson nel 1965. (...) Negli Anni 60 le emissioni di carbonio crescevano in fretta, pressappoco del cinque per cento l’anno. Tuttavia il rapporto non parlava di fermare o anche solo di rallentare tale crescita. Suggeriva invece di «esaminare a fondo la possibilità di apportare deliberatamente cambiamenti climatici compensativi». Una delle soluzioni proposte consisteva nel «disperdere minuscole particelle riflettenti in vaste porzioni di oceano». (...)
Nessuno degli autori del rapporto è ancora vivo, pertanto è impossibile sapere che cosa avesse spinto il comitato scientifico a optare per il progetto multimilionario basato sull’iniezione di particelle riflettenti. Forse era solo lo spirito del tempo.
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