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 2022  agosto 08 Lunedì calendario

A scuola di autodistruzione da Celine

«Sono partigiano della modestia. Quel che importa è l’oggetto. Prenda questa cinepresa. Spero che funzioni magnificamente, ma dopotutto chi l’ha costruita può avere avuto dei problemi, può essere stato cornuto, pederasta, androgino, biondo ossigenato o avere avuto mal di gola, non mi interessa, mi importa che la macchina funzioni». È Louis-Ferdinand Céline che parla alla televisione, nel 1957, intervistato da Louis Pawels in occasione della pubblicazione di D’un château l’autre. Poi sorride dolcemente, e spiega che quello che scrive è perché ha delle spese, e deve pagarle.
La macchina funziona, non c’è che dire. Il suo ingranaggio fondamentale sono i tre puntini preceduti da un punto esclamativo, il nocciolo generativo della prosodia di Céline. Lo scrive lui stesso negli Entretiens avec le professeur Y. «Lo stile emotivo!… a tre puntini!... tre puntini! … la trovata del secolo!... la trovata!... Avrò chissà quali funerali». I tre puntini e i punti esclamativi, onnipresenti, descrivono l’affanno di un testo (di qui il fastidio per Joyce: «Il va trop lentement pour moi, il encule trop la mouche»). Un testo che guadagna enormemente da una lettura ad alta voce, per esempio quella di Fabrice Luchini o di Denis Podalydès. E il peggior tiro che si può giocare a Houellebecq è passare qualche giorno sentendo la lettura di Anéantir per poi passare all’ascolto di D’un château l’autre.
Mentre il primo non ha (né soprattutto manifesta) alcun male che non possa essere lenito da un antidepressivo, oltre che da un buon dentista, il secondo si è cacciato in un guaio spaventoso. E, oltretutto, senza giustificazione artistica. Le Bagatelle per un massacro, che (insieme a La scuola dei cadaveri e I bei drappi) gli meriterà il disonore eterno, è un libro mancato. Però, come i suoi capolavori, fa parte della macchina, che funziona appunto perché dietro c’è il fascista e l’antisemita o, ancora peggio, l’uomo con calzoni sformati, maglioni sporchi uno sull’altro, foulard strappati intorno al collo. Difficilmente riusciremmo a immaginarci una «Casa Céline» dedicata a studi antisemiti e rinascite ariane: il padrone di casa è impresentabile e ha fatto del suo peggio per esserlo, al punto che quando Jünger lo incontrò, il 7 dicembre 1941, all’Institut Allemand nella Parigi occupata fu sconvolto dalla «mostruosa potenza del nichilismo», e lo giudicò «un uomo dell’età della pietra».
«Però! Però, caro Abetz!... La piccola differenza!... Lei fa finta di non sapere!... Lei, Abetz, anche stravinto, soggiogato, occupato da cento lati, da cento vincitori, lei sarà comunque, Dio, Diavolo, gli Apostoli, il coscienzioso leale tedesco, onore e patria! Il vinto perfettamente legale! Mentre io, energumeno, sarò sempre il dannato sporco traditore, da impiccare!». Così Céline in un dialogo, probabilmente inventato, con Otto Abetz, ambasciatore tedesco al tempo di Vichy, uomo colto e amatissimo dai collaborazionisti. Siamo nei primi mesi del 1945, a Sigmaringen, nel fiabesco castello degli Hohenzollern, in cui i tedeschi hanno alloggiato i collaborazionisti: Pétain, Laval, Brinon, e poi giù giù a scendere, in un viaggio al fondo della notte.
Sigmaringen è a meno di duecento chilometri da Strasburgo liberata, le armate di Leclerc e di Delattre de Tassigny stanno per attraversare il Reno. Non è lontano il tempo in cui Delattre, «le Roi Jean», stabilità il proprio quartiere generale a Costanza, settanta chilometri a Sud. Soprattutto, si avvicina il momento della resa dei conti, quella, per esempio, che ebbe luogo il 7 maggio 1945 a Bad Reichenhall, in Baviera, quando una dozzina di Waffen SS francesi della divisione «Charlemagne», quelli che pochi giorni prima avevano difeso Hitler e il Reichstag a Berlino, si incontrarono con il generale Leclerc alla testa delle sue truppe. Lui chiese loro: «Perché indossate delle uniformi tedesche?» e loro: «E lei perché indossa una uniforme americana?». Leclerc li fece fucilare su due piedi.
Sulle prime si ha l’impressione che la postura di Céline sia la stessa di quelli della «Charlemagne», provocatoria e inflessibile, sincera sino alla autodenigrazione. Si obietterà che non c’è niente di più premeditato della sincerità, e che è possibilissimo in Da un castello all’altro, poi in Nord e in Rigodon, che raccontano la fuga e l’infamia, ci sia una dose di ipocrisia, di calcolo, di menzogna. Ma calcolo di che? Diversamente da Von Salomon, che con Il questionario, raccontando le proprie traversie nella Baviera occupata dagli americani, riuscì in una ambigua restaurazione della buona coscienza dei tedeschi, Céline rende ancora più odioso sé stesso, rappresentandosi come il coatto che strappa la stampella al mendicante e lo uccide con quella perché – leggiamo nella pagina finale di Rigodon, scritta il giorno prima di morire – «i Cinesi, quelli veri, i Cinesi da choc, quelli che verranno a occuparci, già bivaccano in Slesia… Breslavia e dintorni… ne verranno altri! Molti altri dalle steppe… certe orde! Kirghisi, moldo-finnci, balto-ruteni… Li vedrete a Pantin».
Aspettandoli, Céline appende i fogli con le molle da stendere su fili tesi attraverso lo studio, come una massaia o un vecchio fotografo, e si esercita in controfattuali: «E se Hitler avesse vinto?… Aragon entrava nelle SS?...». E giù con la disperazione del non appartenere a una qualche chiesa o circo che lo mettesse al riparo dalla punizione, diversamente da «Maurois, Mauriac, Thorez, Tartre, Claudel!... e gli altri! L’abbé Pierre… Schweitzer… Barnum!… Nessuna vergogna!». A un certo punto non si capacita: come è possibile che Tartre, l’«agité du bocal», l’agitato del barattolo, il pesce rosso che smania nel suo acquario, Sartre, che Céline si ostina a chiamare Jean-Baptiste (era il nome del padre, e ci si chiede se Céline lo abbia mai saputo, o se si tratti invece di una delle sue solite sviste, come quando scrive «Raimbaud»), Sartre che ha avuto successo con Le Mosche durante l’occupazione tedesca possa ora apparire come l’eroe della resistenza? «Assassino e geniale?… Lo si è visto… Dopotutto … È forse il caso di Sartre? Assassino lo è, vorrebbe esserlo, ma geniale?».
In uno scritto a tratti insopportabile Benjamin ha sostenuto che Proust è morto per non aver saputo reggere il confronto emotivo con una siepe di biancospini. Céline è un caso molto più grave: non ha saputo tenere a freno il desiderio di degradarsi e di degradare, dando voce a una passione negativa ma collettiva e condivisa, come ha visto bene Paul Morand, definendolo «un povero cane da ciechi, che si è fatto prender sotto, da solo, per salvare il suo padrone malato, questa Francia che continua a tastare il bordo del marciapiede». Sì, ma qual è la morale, l’insegnamento per la vita? Pressappoco quella del Cavaliere nero nello sketch di Proietti: «La morale è che al cavaliere nero non je devi caga’ er cazzo». Muore a sessantasette anni di una emorragia cerebrale, il 1° luglio 1961, ritirandosi come un animale, mentre Lucette, la moglie, continua le sue lezioni di danza al piano di sopra. Il giorno dopo Hemingway si suicida nell’Idaho con un colpo di fucile alla testa, rubandogli la scena sui giornali.