il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022
Le 500 società più grandi al mondo secondo Fortune
OGGIX
La scorsa settimana la rivista Fortune ha pubblicato l’annuale classifica delle 500 società più grandi a livello globale. Da circa tre decenni, l’uscita della Fortune Global 500 rappresenta un evento chiave per il mondo del business internazionale. Quest’anno, fra novità e conferme su tendenze consolidate, emergono interessanti spunti di riflessione.
La classifica si compila sulla base del fatturato dei maggiori gruppi industriali, bancari e assicurativi del mondo nel corso del 2021. Per figurare nella lista, bisogna avere ricavi superiori a 28,6 miliardi di dollari. L’anno scorso, il fatturato totale dei 500 colossi ha totalizzato la cifra record di 37,8 mila miliardi di dollari, un volume di affari corrispondente a circa il 40% del Pil mondiale. Interessante come pure i profitti complessivi cumulati (che tengono conto anche delle 24 società in perdita) abbiano raggiunto il valore più alto di sempre: 3 mila 100 miliardi di dollari, grazie a una crescita media dell’88% rispetto all’anno pandemico 2020. In termini ponderati, questo si traduce in una significativa profittabilità media dell’8,2% per il 2021. Infine, le top 500 impiegano 69,6 milioni di addetti in tutto il mondo, ma le loro centrali di comando sono localizzate in soli 33 Paesi, prevalentemente quelli del cosiddetto “Nord Globale” a medio-alto reddito (con la notevole esclusione della Cina).
In cima alla classifica ininterrottamente dal 2014 si trova Walmart (572,7 miliardi di fatturato). Il gigante Usa del retail è anche il principale datore di lavoro “industriale” al mondo con oltre 2,3 milioni di occupati. Segue in entrambe le misure Amazon (470 miliardi di fatturato, 1,6 milioni di dipendenti), che agli attuali tassi di crescita raggiungerà il primo posto in un paio d’anni (nel 2014 era al 112°), sorpasso simbolico della distribuzione “online” rispetto a quella “fisica”. La prima società europea nella lista è Volkswagen, all’ottava posizione. Fra quelle con i maggiori profitti primeggiano Saudi Aramco (105 miliardi), Apple (95 miliardi) e Berkshire Hathaway (90 miliardi) del miliardario Warren Buffet, con margini superiori al 25%.
Ma al di là dei singoli casi, la classifica Fortune permette di tracciare alcune tendenze che pervadono la competizione tra i sistemi economici. In primo luogo, il 2021 ha certificato il primato delle 136 imprese cinesi presenti nella lista, che per la prima volta superano le 124 degli Stati Uniti anche in termini di fatturato complessivo (31% del totale delle top 500). Questo perché le società cinesi sono anche fortemente concentrate nelle prime posizioni: fra le prime 100 ve ne sono ben 34, di cui 28 sono imprese statali o a controllo pubblico. Il confronto rispetto ad appena 20 anni fa è impressionante: nella lista nel 2002 le società cinesi erano solo 11 nei primi 500 posti (3 nei primi 100). La lista Fortune cattura così una delle più imponenti trasformazioni dell’economia mondiale di questo secolo, ovvero l’ascesa nel panorama competitivo globale del capitalismo di Stato cinese in settori chiave come l’energia, i sistemi ingegneristici, le banche, la siderurgia, le telecomunicazioni, l’elettronica e i veicoli a motore.
Secondo, i 124 grandi gruppi Usa mantengono una posizione di rilievo nel contesto internazionale, anche rispetto al Giappone, che ormai vede ridotto a 47 il numero di imprese in classifica (erano 149 nella lista del 1995, due sole in meno rispetto agli Usa). Al tempo stesso, si conferma ulteriormente la tendenza al superamento del tradizionale modello di capitalismo americano del secolo scorso, dominato dai giganti manifatturieri fra cui General Motors, Ford, Ibm, Du Pont, General Electric, Us Steel. Oggi le principali imprese per fatturato, ma anche per profitti e spesa in ricerca e sviluppo, sono le cosiddette Big Tech: Amazon (2°), Apple (7°), Alphabet-Google (17°), Microsoft (33°), Meta-Facebook (71°). Da notare anche l’andamento in crescita dei grossi gruppi legati alla sanità privata: Cvs Health (10°), UnitedHealth (11°), McKesson (16°), AmerisourceBergen (21°) sono nomi poco noti che però demarcano le dimensioni di quel settore messo a mercato.
Il terzo elemento riguarda l’Italia, con 5 società nella lista (contro le 28 della Germania e le 25 della Francia): Generali (72°), Enel (90°), Eni (111°), Intesa Sanpaolo (298°) e Poste Italiane (378°). Nessuna impresa manifatturiera, se si escludono Stellantis (29°) e il Gruppo Exor (293°), che sono tuttavia multinazionali registrate in Olanda con produzioni in Italia sempre più marginali. Il nostro Paese non ha mai disposto di un nucleo cospicuo di gruppi con dimensioni globali: nella lista dei primi anni 90 se ne contavano 7, contro le 30 di Francia e Germania. Nondimeno, a quei tempi i grandi complessi industriali italiani si collocavano nelle primissime posizioni: nel 1990 l’Iri era al 7° posto (oggi ci sta Apple), la Fiat al 13° (dove oggi c’è Toyota), l’Eni al 18° (oggi troviamo Samsung), Pirelli al 156° (davanti all’attuale leader mondiale Continental), Olivetti al 179° (oggi sarebbe circa al pari di Lenovo). Il declino economico italiano è anche rappresentato dall’arretramento nell’oligopolio internazionale delle sue più grandi imprese (manifatturiere), causato in larga parte dallo smantellamento dei grossi gruppi pubblici e dall’indifferenza per la rovina di quelli privati (come Montedison e Olivetti).
Stante i vincoli di una sempre più serrata competizione oligopolistica su scala mondiale, avere grandi imprese integrate nelle catene globali del valore è un presupposto non sufficiente ma necessario per un’economia che vuole svilupparsi nell’attuale contesto competitivo. Una strategia che perseguono alcune medio-piccole economie di successo. La Svizzera ha ben 14 società nella lista fra cui il più importante gruppo alimentare del mondo (Nestlé), le due più grandi case farmaceutiche mondiali pre-pandemia (Roche e Novartis) e il secondo player globale nell’automazione industriale (Abb). La classifica Fortune, pur comparando imprese di vari settori, rappresenta in modo immediato le macro dinamiche di un capitalismo a sempre maggiore concentrazione industriale, dominato da un ristretto gruppo di grandi imprese.