il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022
Biografia di Heinrich Schliemann, un archeologo affarista
A volte i conflitti in Ucraina diventano opportunità. Fu senz’altro così per il tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890): da operoso commerciante di Amsterdam (dopo esservi approdato nel 1841 in seguito al naufragio del bastimento che lo portava in Venezuela), distaccato a San Pietroburgo nel 1846 e poi arricchitosi grazie a traffici d’ogni genere (in California investì nella caccia all’oro), fu con la guerra di Crimea che egli si fece milionario puntando in modo spregiudicato sull’indaco – il colore delle divise zariste –, il piombo, il salnitro e altre materie di prima necessità. Quando si dice avere fiuto.
Proprio la ricostruzione dei viaggi e degli affari dei suoi primi 44 anni di vita – prima cioè della “conversione” per cui si iscrisse a Lettere Antiche alla Sorbona di Parigi – è la parte migliore della mostra I mondi di Schliemann, che fino al 6 novembre celebra il bicentenario della nascita di Heinrich (quinto figlio di un modesto pastore luterano), presso la James-Simon-Galerie e il Neues Museum di Berlino. Una mostra fin troppo apologetica e intrisa di mito, tesa a mostrare l’eccezionalità dell’imprenditore prima e dell’archeologo poi, lumeggiando aspetti meno noti come la sua incredibile poliglossía: pochi sanno che brevettò un “metodo Schliemann”, consistente nel leggere a voce alta testi in una lingua di cui si possiedano i minimi rudimenti grammaticali, e nell’iniziare poi subito a parlare e a scrivere in tale lingua per via d’imitazione: fu così che egli stesso imparò il russo in 6 settimane, fu così (e non tramite l’insegnamento liceale dell’epoca, da cui si usciva – a suo dire – “più asini di prima”) che apprese alla perfezione il greco antico come lingua viva, al punto da usarlo per scrivere lunghe lettere di lavoro agli archeologi di mezzo mondo.
Autodidatta, irregolare, iperattivo, egocentrico, contafrottole, fortunato: dopo i primi, velleitari tentativi a Itaca e dopo le sensazionali e spregiudicate campagne di scavo condotte a Troia, Micene, Tirinto, Orcomeno (le ultime due, spesso dimenticate perché meno spettacolari, fornirono invece elementi-chiave per la conoscenza dell’urbanistica e della società micenea), Schliemann entrò inevitabilmente in conflitto con gli accademici che gli davano di pericoloso dilettante, e con la Germania tutta, alla quale l’aveva giurata perché – scriveva nel 1875 – “lì vengo continuamente e orribilmente insultato dai professori invidiosi”. Dal 1869 Schliemann fece base ad Atene, dove dal 1881 abitò il “Palazzo di Ilio” costruito per lui dall’architetto Ernst Ziller: “Casa Schliemann è una residenza notevole: gli affreschi, i mosaici, i mobili, sono meravigliosi” ne scrisse ammirato nel 1901 il poeta Costantino Kavafis, accolto in quella fastosa magione ricca di reperti da Andromaca Schliemann, la figlia avuta dalla seconda moglie (e compagna di scavi) Sophia Engastromenu. Sophia fu la ragazza che Schliemann scelse per corrispondenza su un catalogo tipo Postal-market inviatogli in risposta alla sua circostanziata richiesta: “Deve avere aspetto greco, capelli neri, ed essere bella; povera, ma istruita, deve sapersi entusiasmare per Omero”. E fu proprio Sophia, dunque, a indossare per prima, in una famosa foto, i gioielli del “Tesoro di Priamo” ritrovato a Troia il 31 maggio 1873, spacciato nottetempo per nave verso Atene prima che la notizia si diffondesse, e sette anni dopo donato al Reale Museo di Berlino nonostante i rancori sopra ricordati. Se Schliemann scelse in tal senso, fu certo per la sua stretta amicizia con l’antropologo berlinese Rudolf Virchow e per la stima del direttore del Museo Richard Schöne, nonché forse anche grazie a un incontro con Bismarck alle terme.
Ma la mostra omette di ricordare come per molti anni dopo il ritrovamento Schliemann provasse a vendere il Tesoro – de facto scippato ai legittimi proprietari, ovvero l’Impero Ottomano che infatti gli fece causa – a vari Stati europei, anzitutto l’Inghilterra (dove il premier Gladstone, da esperto omerista, si interessò della questione ma arretrò dinanzi al prezzo esoso), la Francia (a cui fu invano promesso un grosso sconto) e perfino l’Italia (i contatti più stretti furono col ministro Bonghi, anch’egli pregiato antichista, e con il Museo di Napoli: ma tutto sfumò, e per ironia della sorte proprio a Napoli Schliemann finì per morire per un ictus il giorno di Natale del 1890).
La nemesi della Storia non tardò: esposto a Berlino, frettolosamente nascosto da Hitler nel 1939, trafugato dai russi entrati in città nel ’45 e lungamente ritenuto disperso, il Tesoro di Priamo (che poi di Priamo certamente non è, visto che risale al III millennio a. C.) ricomparve nel 1993 al Museo Pushkin di Mosca dopo che Boris Eltsin, durante un viaggio di Stato ad Atene, ne promise la restituzione (?) proprio alla Grecia, suscitando le prevedibili ire di Ankara e di Berlino. Il Tesoro – lamentano i pannelli della mostra berlinese – è ancora a Mosca. Ma se oggi i potenti d’Europa (e anche Biden: Schliemann non avrebbe mai scoperto Troia senza le dritte del vice-console americano per i Dardanelli Frank Calvert) si mettessero attorno a un tavolo per studiare e dipanare la storia di quell’uomo e di quei gioielli, potremmo forse sventare la III guerra mondiale.