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 2022  agosto 08 Lunedì calendario

Storia di questa legislatura

Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle hanno governato insieme per quasi tre anni, dalla formazione del secondo governo Conte nel settembre del 2019 fino alla recentissima crisi del gabinetto Draghi. I tre partiti della coalizione di destra non hanno mai governato insieme, invece, e nel corso di questa legislatura hanno condiviso soltanto l’opposizione al Conte II per circa diciassette mesi. Eppure questi si presentano uniti alle elezioni di settembre, mentre quelli vanno divisi. Perché? La risposta dev’essere cercata in una storia di ambiguità e di leadership.2011: l’origine del (nostro) mondo
La preistoria di questa vicenda comincia circa dieci anni fa, nel momento in cui la crisi del debito sovrano e la soluzione tecnocratica del governo Monti aggravano e allargano il conflitto fra l’opinione pubblica italiana e un’Europa – o forse, più precisamente, un’eurozona – accusata d’imporre vincoli irragionevoli, soffocanti e vessatori. Quel conflitto apre nel nostro spazio pubblico una nuova frattura politica che non si sostituisce ma si aggiunge a quella «classica» fra destra e sinistra, disponendosi in una posizione più o meno ortogonale rispetto ad essa, e che contrappone l’establishment europeista a una protesta cui, in mancanza di definizioni più precise, viene attribuita l’etichetta di populista. Salta così il sistema politico bipolare della cosiddetta seconda Repubblica, ritenuto responsabile della mancata armonizzazione fra dimensione nazionale e contesto europeo – oltre che di inefficienza e corruzione. Nella nuova frattura politica, a esprimere la protesta, mette radici e cresce fulmineo come un fagiolo magico il Movimento 5 stelle. E prende malamente forma uno spazio pubblico fluido e instabile, che i due assi del conflitto (destra/sinistra ed establishment/protesta) dividono in quattro quadranti frammentati e polarizzati.L’ambiguità e l’arte
della romanizzazione dei barbari
Per le forze politiche «tradizionali» di destra e di sinistra diviene prioritario che la protesta venga in qualche modo riassorbita. Nella legislatura 2013-2018 ci s’illude che il Movimento 5 stelle sia diretto verso un naufragio repentino e devastante – che la protesta sia un fenomeno congiunturale, insomma, destinato a sparire rapidamente da sé. La strategia, allora, è quella dell’alleanza fra i «tradizionali» (Partito democratico e Forza Italia) per guadagnare tempo, in attesa che avvenga l’inevitabile. Ma l’inevitabile non avviene affatto: dopo il 2018 i «tradizionali» non hanno più una maggioranza in Parlamento, mentre Lega e M5s, che pure alle elezioni si sono presentate l’una contro l’altro, insieme controllano più del 50 per cento dei seggi. Senza almeno uno dei due, insomma, non si governa: urge che i barbari siano romanizzati. Veniamo così al primo punto nodale di questo ragionamento: se vogliono riassorbire la protesta, o direttamente parlando agli elettori o indirettamente alleandosi con una forza politica populista, i partiti «tradizionali» devono ricorrere in misura considerevole all’arma dell’ambiguità. Devono riuscire a essere di lotta e di governo, insomma: imparare a parlare alle Piazze adirate, o almeno agganciarsi a chi ci sappia parlare; ma al contempo rassicurare pure il Palazzo (e i suoi referenti europei), contro il quale, se pure si vincono le elezioni, è di fatto impossibile esercitare il potere.Ma la destra e la sinistra non sanno gestire ugualmente bene l’ambiguità. E questo – ecco il secondo punto nodale del ragionamento – ha molto a che vedere col loro diverso rapporto con la leadership. La destra ha ricevuto il suo imprinting da Silvio Berlusconi. E Berlusconi ha innanzitutto messo la propria leadership al centro del villaggio, subordinandole qualsiasi considerazione di natura ideologica o organizzativa ed eliminando i dissenzienti quando dissentivano troppo (per non parlare dei suoi poveri delfini, spiaggiati e divorati dalle femminote come le fere dello scill’e cariddi in Horcynus Orca). In secondo luogo, è stato un leader strutturalmente ambiguo, insider e outsider allo stesso tempo, responsabile ma anti-istituzionale, europeista ma all’occorrenza eurocritico. Quelli che si son sorpresi perché ha infine staccato la spina al governo Draghi – sia detto per inciso – temo non abbiano capito molto della sua storia. Infine, la sua leadership ambigua ha rappresentato lo strumento perfetto per parlare agli elettori della destra italiana, contraddittori essi stessi, sociologicamente conservatori ma culturalmente irregolari, pragmatici e poco ideologici, tendenzialmente antipolitici, ombrosi e dispettosi. Elettori, insomma, che se ne infischiano se il gatto un giorno è nero, un giorno è rosso, e un giorno è contemporaneamente rosso e nero – purché acchiappi i topi. Il che in misura non piccola vuol dire: tenga la sinistra fuori dai piedi e non aumenti le tasse.La sinistra vive in tutt’altra galassia. È uscita dal terremoto di Tangentopoli con una classe dirigente e un apparato organizzativo ragionevolmente intatti, conservando la tradizione comunista e parte di quella democristiana, perciò non ha avuto bisogno della supplenza di un leader. Col concetto stesso di leadership, anzi, ha da sempre un rapporto assai difficile. Al tempo stesso, tanto i partiti progressisti quanto i loro elettori sono molto più «politici» che a destra: princìpi, valori, ideologie, identità, faziosità. E pensiero politico moltiplicato per assenza di leadership – individuale o collettiva – non può che equivalere (soprattutto in Italia) a dissenso, indisciplina, frammentazione. In più, il Partito democratico è stato quasi ininterrottamente al potere dal 2011 a oggi. E certo, il potere è un bel collante, ma rende anche sempre più difficile tenersi in un equilibrio ambiguo fra la lotta e il governo. Il Pd è diventato così, senza equivoci né sfumature, il partito della ZTL, dell’establishment, dei protetti: fortissimo nel Palazzo, scarsamente presente nelle Piazze. Matteo Renzi, che aveva capito tutto, ha cercato di curare la sinistra dal suo doppio deficit, di leadership e di ambiguità. Ma è finita com’è finita – anche se, come vedremo, il fiorentino avrà la sua vendetta, e l’avrà in questa vita.Il Movimento 5 stelle, infine, non ha mai avuto un leader in senso proprio. E come avrebbe potuto, del resto, se uno vale uno? Beppe Grillo ne è stato il catalizzatore, fondatore e punto di condensazione. Ed entro certi limiti ne ha curato la disciplina interna. Ma non ne ha mai voluto assumere la piena leadership politica, e sempre meno lo ha voluto col passare del tempo (chissà che cosa sarebbe accaduto se non fosse scomparso Gianroberto Casaleggio…). Per tutta la legislatura 2013-2018 il M5s, pur essendo attraversato da infinite contraddizioni, non è stato però toccato dall’ambiguità di fondo della quale stiamo parlando qui, quella fra Piazze e Palazzo: i cinque stelle stavano inequivocabilmente dalla parte delle Piazze. La situazione, com’è noto, si sarebbe modificata profondamente nella legislatura successiva.Il governo gialloverde
Veniamo così alle elezioni del 2018 e alla nascita della XVIII legislatura. La formazione del governo gialloverde segna il momentaneo prevalere della frattura fra establishment e protesta su quella fra destra e sinistra: non è un governo di destra né di sinistra, è il governo della protesta contro l’establishment. È forse uno dei punti più bassi che la vita pubblica italiana abbia mai toccato, fra la propaganda insensata dei partiti di governo da un lato e le ripetute crisi isteriche delle Cassandre dell’establishment dall’altro. Il populismo è diventato ubiquo, del resto: c’è quello dei populisti, certo, ma c’è pure quello degli antipopulisti. Tutto questo, per altro, sul proscenio e a beneficio del pubblico – mentre nel frattempo, in sala macchine e sotto lo sguardo vigile del Quirinale, il ministro Giovanni Tria teneva i conti sotto controllo, e per il 2019 negoziava con la commissione europea un modesto deficit del 2,04 per cento.Il governo gialloverde, a ogni modo, pone anche le premesse perché la frattura fra destra e sinistra gradualmente si riaffermi. Fra le elezioni politiche del 2018 e le europee del 2019 il Movimento 5 stelle perde circa quindici punti percentuali e la Lega ne guadagna circa diciassette: una gran massa dei voti di protesta, soprattutto quelli che erano privi di una chiara connotazione politica di sinistra, si sposta da Beppe Grillo a Matteo Salvini. La conquista delle Piazze alimenta nel leader leghista la speranza di poter tornare a destra, alla coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia, da una posizione di forza, e di poter mettere a frutto il consenso raccolto attraverso un passaggio elettorale. È il cosiddetto Papeete, l’estate del 2019, e sappiamo che a Salvini andrà molto male. La destra, tuttavia, riprende forma e torna ai numeri dell’età d’oro del berlusconismo: alle europee del 2019 i tre partiti insieme raccolgono quasi il cinquanta per cento dei voti. Da allora a oggi sono rimasti grosso modo a quella quota, anche se al loro interno i pesi si sono modificati non poco.Il governo giallorosso
Nel frattempo la metamorfosi dell’elettorato 5 stelle da un lato e la necessità di formare un governo per evitare le elezioni dall’altro aprono una prospettiva di ricostruzione anche a sinistra. Il progetto è piuttosto semplice: il sistema politico italiano è diviso in quattro quadranti dai due assi ortogonali destra/sinistra e Palazzo/Piazze e il Partito democratico è collocato nel quadrante «Palazzo-sinistra». Se il M5s «depurato» degli elettori passati alla Lega riuscisse infine a consolidarsi nel quadrante «Piazze-sinistra», sarebbe allora possibile costruire un’alleanza progressista potenzialmente maggioritaria e capace di ricucire, per lo meno su quel versante, la protesta e l’establishment. Il prezzo da pagare, ovviamente, sarebbe una notevole dose di ambiguità, all’interno dei singoli partiti e soprattutto nella coalizione.Oggi sappiamo che questo progetto, per quanto semplice e tutto sommato ragionevole, è fallito. Sul suo fallimento ha pesato non poco la vendetta fiorentina di cui si diceva prima. Renzi è stato il vero deus ex machina della crisi dell’estate 2019 e l’artefice principale del governo giallorosso. Di quel governo ha accolto tuttavia la valenza tattica, emergenziale: soluzione di necessità intesa a evitare che Salvini si prendesse il Paese. Ne ha invece sempre avversato la valenza strategica, l’idea che la sinistra potesse essere ricostruita intorno all’alleanza fra Pd e M5s. Tanto da uscire dal Partito democratico immediatamente dopo la nascita del gabinetto Conte II e da mettere, da quel momento in poi, la propria indiscutibile intelligenza politica al servizio di un singolo scopo: questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai. Fino a coronare l’operazione, all’inizio del 2021, con la nascita del governo Draghi.Forse Renzi da solo non sarebbe stato sufficiente al naufragio del progetto giallorosso, tuttavia, se non ci avessero messo del loro sia il Partito democratico sia il Movimento 5 stelle. Ritorniamo così al tema dominante di quest’analisi: per gestire l’ambiguità ci vuole una leadership robusta e riconosciuta. Senza leadership, l’ambiguità genera tensioni ingestibili nei partiti e nelle alleanze, li tira in direzioni differenti, li priva di lucidità, e alla fine magari li spacca pure. Perfino in presenza di una pandemia, che consentirebbe di azzerare molto del pregresso e di giustificare cambiamenti di linea anche radicali. Non per caso, poche settimane dopo la crisi di governo che porta da Conte a Draghi, il segretario generale del Partito democratico Nicola Zingaretti si dimette dicendo addirittura che si vergogna del proprio partito. Se nel 2019, col Papeete, si fosse andati al voto, come Zingaretti inizialmente desiderava, dall’opposizione il matrimonio fra il Pd e il M5s sarebbe probabilmente stato più agevole. Ma il Partito democratico è vittima della propria stessa retorica: se vince Salvini finisce il mondo, e la fine del mondo dev’essere fermata a ogni costo.Dal governo Draghi alle elezioni
Forse al Partito democratico e al Movimento 5 stelle sarebbe convenuto andare al voto anche dopo la crisi del governo Conte II. Certamente sarebbe convenuto all’alleanza fra i due. Ma se non si poteva regalare l’Italia alla destra nel 2019, figurarsi nel 2021, con la pandemia in corso. Nasce così il gabinetto Draghi. Dopo qualche mese d’incertezza, il nuovo segretario del Pd Enrico Letta inchioda il proprio partito al carro del nuovo governo e da lì non si muove più. È la linea dell’anti-ambiguità, della massima chiarezza sull’agenda Draghi, e indiscutibilmente paga. Solo, quella linea è pure abbinata alla conferma della strategia di alleanza col Movimento 5 stelle, il cosiddetto «campo largo». Ma più il Pd si «disambigua», più l’onere di gestire l’ambiguità si sposta sul M5s: il partito delle Piazze si trova a sostenere un governo che più di Palazzo non si potrebbe e a perseguire l’alleanza con un partito che di quel governo è il più convinto alfiere. È un peso che alla lunga il M5s, molto semplicemente, non è in grado di sopportare, non da ultimo perché è un partito privo di leadership. Quando l’ala del Movimento che più si è riconciliata con l’establishment, quella di Luigi Di Maio, prende la decisione sconsiderata di secedere, quel che resta dei grillini collassa.Arriviamo così alla storia di questi giorni, alla crisi del governo Draghi e alle elezioni anticipate. Non potendo più scaricare l’ambiguità sull’alleanza coi cinque stelle, il Partito democratico deve gestirsela in casa. Se si allea con Carlo Calenda si colloca senza incertezze sul lato del Palazzo – la missione che si è dato Calenda è precisamente quella obbligare il Pd a «disambiguarsi». Le contraddizioni all’esterno in quel caso scomparirebbero, ma monterebbero le tensioni all’interno del partito, e le elezioni diverrebbe piuttosto difficile vincerle. Letta getta allora un amo anche sul versante Piazze, alla sua sinistra, per tenere contente tutte le anime dei democratici e accrescere le chance di vittoria. Ma fra Piazze e Palazzo, in assenza di un leader che faccia da mediatore, non è possibile una coalizione, tutt’al più una mera alleanza elettorale. Il che vuol dire che il prezzo dell’ambiguità viene scaricato sugli elettori. E in quale modo reagiranno costoro?Nel complesso, i partiti del destra-centro sono molto più sbilanciati in direzione delle Piazze e hanno assai minor dimestichezza col Palazzo. Di ambiguità se ne trova parecchia pure da quelle parti, però. Le contraddizioni storiche del partito di Berlusconi, delle quali già s’è detto, non sono affatto venute meno. La Lega di Salvini è passata in diciotto mesi dal Papeete al governo Draghi, che altri diciotto mesi dopo ha contribuito a far cadere. Fratelli d’Italia sta addirittura tentando di raccogliere voti di protesta che sono sì naturalmente di destra, ma sono pure troppo indisciplinati e antipolitici per darsi un’identità culturale, e di metterli al servizio di un progetto ideologico conservatore. Per giunta costruendosi al contempo un’immagine rassicurante e responsabile. La presenza di leadership forti e indiscusse, a ogni modo, ha consentito ai tre partiti di tenere le ambiguità sotto controllo e di ricostruire un’alleanza malgrado le tante scelte divergenti di questa legislatura. E di farlo senza perdere nessun pezzo tranne qualche fuoruscito da Forza Italia: fuorusciti di peso, per carità, ma con ogni probabilità non determinanti.La metamorfosi del vincolo esterno
Il quadro non sarebbe completo se, dopo aver seguito le evoluzioni della politica italiana, non considerassimo in quale modo si sia venuto modificando nel frattempo quel vincolo europeo dal cui rifiuto è scaturita dieci anni fa la frattura fra establishment e protesta. Non sarebbe completo perché, molto semplicemente, in quest’estate del 2022 l’Europa non è più né quella alla quale per anni si è appoggiato l’establishment, né quella contro la quale si è scagliata la protesta. Gli italiani paiono essersene accorti – il loro euroscetticismo è visibilmente in calo –, anche se, a giudicare dai sondaggi, questo non sembra aver modificato le loro scelte elettorali. I partiti invece non paiono essersene resi conto più di tanto, e troppo spesso si attardano a combattere le battaglie dell’altroieri.L’Europa del Next Generation EU e del Transmission protection mechanism varato di recente dalla Banca centrale di Francoforte non è stata di certo costruita dai sovranisti. Tutt’altro. Eppure assomiglia parecchio a quella che per anni hanno chiesto proprio loro, reclamando la fine dell’austerity e la protezione del debito sovrano da parte dell’autorità monetaria continentale. Lo spazio che Salvini e Meloni avrebbero a disposizione per modificare la propria posizione nei confronti dell’Europa, rivendicando al contempo piena coerenza con se stessi, è enorme. Se lo sfruttano poco, quello spazio (nel quale si muove invece con disinvoltura Guido Crosetto), è perché le loro richieste sono state soddisfatte sì, ma subordinate a condizioni stringenti. Fai attenzione a quel che desideri, perché potresti ottenerlo: i sovranisti in realtà chiedevano più Europa, e l’hanno avuta – ma al prezzo di un’ulteriore compressione della sovranità nazionale.Le condizioni imposte dall’Europa, come tutto quello che viene dall’Unione, non sono scolpite nel marmo ma sono robustamente subordinate a considerazioni di natura politica. È questo che spaventa i sovranisti, eccentrici rispetto all’establishment politico continentale e timorosi quindi, nel caso vincessero, di trovarsi sulla linea di fuoco. Ed è su questo che puntano invece gli europeisti: mettersi in asse con quell’establishment e lasciarsene trascinare. La situazione, tuttavia, è cambiata e sta cambiando pure su questo terreno. L’establishment europeo non gode affatto di buona salute, Francia e Germania sono politicamente deboli e alle prese con spinosissimi problemi domestici, e Bruxelles tutto può permettersi tranne il fallimento del Next Generation EU, del quale com’è ben noto l’Italia – chiunque la governi – resta il principale beneficiario. Pensare che l’europeismo sia condizione non soltanto necessaria ma pure sufficiente a definire una posizione politica, insomma, potrebbe rivelarsi un errore madornale. Non da ultimo perché il conflitto in Ucraina e le tensioni sino-americane stanno modificando profondamente il campo di gioco.Per concludere
Con la crisi del Movimento 5 stelle, queste elezioni chiudono il ciclo politico decennale che potremmo chiamare «dei quattro quadranti», apertosi col voto del 2013. L’asse establishment/protesta è stato in larga misura riassorbito dall’asse destra/sinistra: il centro sinistra sbilanciato verso l’establishment, il destra centro verso la protesta. Al contempo, l’evoluzione del quadro europeo e internazionale apre spazi immensi agli uni e agli altri perché superino i propri limiti e provino a ricucire su entrambi i versanti il Palazzo con le Piazze. Per approfittarne basterebbero un po’ di buona volontà e d’inventiva politica, la capacità di emanciparsi dai riflessi condizionati del passato e il desiderio fermo di piantarla col populismo, quello dei populisti così come quello degli antipopulisti. Vaste programme, avrebbe detto Charles De Gaulle.