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 2022  agosto 06 Sabato calendario

C’è una sola Cina, oppure sono due?

Per Xi Jinping «la riunificazione è doverosa, necessaria, inevitabile» anche con la forza. Taiwan è considerata «provincia ribelle», da quando sulla terraferma le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek vennero sconfitte dai comunisti di Mao Zedong al termine della guerra civile (1945-1949) e si rifugiarono sull’isola. La legittimità storica è discutibile. Taiwan non è stata sempre un’appendice della nazione cinese come vuol far credere Xi. I più antichi abitanti dell’isola sono un’etnia indigena, frutto di migrazioni dal continente asiatico avvenute fra 30.000 e 6.000 anni fa. Ma oggi la comunità autoctona è ridotta al 2% della popolazione. Taiwan è stata di volta in volta invasa da etnie della Cina continentale come gli Hakka che hanno finito per considerarsi indigeni; dai portoghesi che la battezzarono Formosa; dagli olandesi; dai francesi. Dalla fine dell’Ottocento è stata a lungo una colonia del Giappone. La sua storia come territorio annesso alla Cina continentale è abbastanza recente e discontinua, anche se l’ultima dinastia imperiale (Qing) ha fatto di tutto per affermare la propria sovranità, onde impedire che il Giappone mantenesse quell’isola da cui minacciava le coste cinesi. 
Il fatto che l’ultima invasione, del 1949, abbia avuto come protagonisti i nazionalisti cinesi sconfitti da Mao, ha ingigantito il rilievo geopolitico del suo status. Da allora Pechino ha sempre sostenuto che Taiwan è una sua provincia occupata da forze secessioniste illegali. Diffida i governi di Taiwan, pur democraticamente eletti, dal fare qualsiasi atto che possa preludere a una dichiarazione d’indipendenza. Pechino esercita pressioni su tutti gli altri Stati per impedire che riconoscano Taiwan. La Repubblica Popolare richiama alla coerenza la comunità internazionale. Wang Yi, ministro degli Esteri, l’ha paragonata alla Catalogna, ricordando quel che è successo quando Barcellona ha provato a dichiararsi indipendente: il governo di Madrid ha ignorato il responso del referendum locale e dell’assemblea legislativa catalana; ha arrestato degli ex ministri del governo autonomo; altri sono stati mandati in esilio. L’Unione europea, gli Stati Uniti, hanno appoggiato Madrid. 
Per Xi Jinping, qualsiasi metodo lui decida di usare per annettersi l’isola, inclusa l’aggressione militare, la legittimità è tutta sua. È una «questione interna». Ad aiutarlo, almeno in parte, c’è il fatto che gli altri due attori del dramma hanno comportamenti ambigui: Taiwan e gli Stati Uniti. 
La storia ha ingarbugliato le cose già nel 1949. Il capo dei nazionalisti, Chiang Kai-shek, cullava sogni di rivincita. Voleva preparare il ritorno sulla terraferma, sconfiggere i comunisti e sostituirli al governo di Pechino. Per lui Taipei era una sede provvisoria, si considerava l’unico capo legittimo di tutta la Cina. I due nemici, Mao e Chiang, condividevano l’idea che ci fosse una sola Cina: ciascuno se ne considerava il leader legittimo, escludendo che potessero esistere due Stati cinesi. Il principio «una sola Cina» fu quindi sostenuto a lungo dai politici taiwanesi. Col passare del tempo è diventato una finzione. Il nazionalismo di Chiang aveva imposto a Taiwan la legge marziale (teoricamente in vista della rivincita militare) e un regime autoritario di destra. Dalla fine degli anni Ottanta i successori di Chiang hanno pilotato l’isola verso una democrazia pluralista. Proprio mentre a Pechino il regime comunista si macchiava di un crimine contro il proprio popolo schiacciando nel sangue la protesta di Piazza Tienanmen (1989), a Taipei sbocciavano le libertà. Le elezioni taiwanesi hanno consentito l’alternanza al governo e spesso hanno premiato il partito democratico, il più indipendentista, a cui appartiene l’attuale presidente Tsai Ing-wen, prima donna a ricoprire questo incarico. Le nuove generazioni sull’isola si sentono sempre meno cinesi e sempre più taiwanesi, anche grazie al fiorire di una vita culturale molto creativa, dalla letteratura al cinema, dalla pittura alla pop music. Però Taiwan rimane condizionata dal suo atto fondatore del 1949, e nessun governo ha mai osato perseguire apertamente l’indipendenza. Anche perché da Pechino sono giunti segnali inequivocabili: quell’atto è la «linea rossa» da non varcare, le conseguenze sarebbero tremende. 
Taiwan rimane condizionata dall’atto fondatore del 1949, nessun governo ha mai osato perseguire l’indipendenza. Per Pechino quell’atto è la «linea rossa» da non varcare 
Gli Stati Uniti sono altrettanto prigionieri della Storia. Nel 1945-49 sostennero Chiang Kai-shek nella guerra civile. Continuarono ad aiutare il leader nazionalista dopo la sua fuga a Taipei. Tutti i presidenti americani, sia repubblicani che democratici, aderirono alla finzione sulla «Cina unica»; per i primi decenni del dopoguerra riconobbero come legittimo Stato quello con sede («provvisoria») nell’isola. All’inizio, grazie all’appoggio dell’America, fu Taiwan a occupare il seggio cinese alle Nazioni Unite. Taipei riceveva aiuti economici e militari da Washington e per anni ci fu un formale trattato con cui gli americani ne garantivano la difesa in caso di aggressione. Poi la svolta: il summit a sorpresa fra il presidente Richard Nixon e Mao a Pechino nel 1972; il disgelo tra la superpotenza occidentale e il gigante asiatico. Infine il riconoscimento diplomatico tra Washington e Pechino il 1° gennaio 1979 durante la presidenza di Jimmy Carter e la leadership di Deng Xiaoping. 
Washington ha continuato a rispettare il principio di «una sola Cina», spostando però il riconoscimento da Taipei a Pechino. Il rapporto con Taiwan è rimasto molto stretto però informale: non esistono più una vera e propria ambasciata Usa a Taipei né il corrispettivo taiwanese a Washington. Nei confronti della Cina, da mezzo secolo i presidenti americani si sono accontentati di difendere uno status quo ambiguo e quindi precario. In cambio del riconoscimento della Repubblica Popolare, gli Stati Uniti hanno sempre chiesto – e in passato hanno ottenuto – che Pechino s’impegnasse a non riunificarsi con Taiwan usando la forza. Le stesse amministrazioni Usa lasciavano intendere che avrebbero difeso Taipei da un’aggressione; pur senza rinnovare un formale trattato. Non esiste oggi nulla di così vincolante come l’articolo 5 della Nato che impone l’intervento in difesa di un alleato sotto attacco. Gli Stati Uniti hanno aiutato Taiwan a difendersi da sola, con vendite di armi per decine di miliardi. L’America accetta il principio che di Cina ce n’è una sola, ma fa di tutto perché nella realtà ce ne siano due. 
Questo equilibrio instabile oggi è compromesso. Ai tempi di Mao, e anche di Deng Xiaoping, le forze armate cinesi erano gigantesche ma arretrate; le vendite di armi Usa davano a Taiwan una superiorità tecnologica che bastava a compensare l’inferiorità numerica. In qualche caso il conflitto venne sfiorato, ma bastò che si affacciassero nello Stretto le navi della Settima flotta Usa, e l’effetto deterrente sui cinesi fu efficace. Tutto questo è un ricordo del passato. La strabiliante avanzata della Cina in fatto di armamenti la avvicina alla parità con gli Stati Uniti. Per numero di navi la flotta cinese ha già superato le dimensioni di quella americana. Se si aggiunge il vantaggio geografico, la facilità a percorrere lo Stretto, il confronto militare è molto più favorevole ai cinesi. Gli scenari più ottimisti a Washington puntano sulla capacità di Taiwan di resistere poche settimane all’invasore, dando il tempo ai rinforzi Usa di arrivare. Ma la dottrina militare considera questa come un’impresa quasi disperata. Nei «wargames», le simulazioni dei vari scenari di conflitto effettuate al Pentagono, uno scontro Usa-Cina su Taiwan viene quasi sempre vinto dai cinesi.