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 2022  agosto 06 Sabato calendario

Afghanistan, nuovi baby-schiavi in miniera

Noorullah ha 12 anni, il viso da bambino e lo sguardo già stanco della vita. È sdraiato nelle fauci della terra, nelle miniere di Nahrain, provincia di Baghlan, area Nord dell’Afghanistan. Ha le mani enormi e tutte nere, come la faccia. Tossisce di continuo, gli occhi gli fanno male e se li sfrega a ripetizione. La scuola non la frequenta più, non sa neppure più cosa sia: il suo posto è all’inferno. Da quattro anni scava in un tunnel sotterraneo largo meno di due metri, per estrarre carbone e ricevere in cambio 7 dollari al giorno. Lavora sempre, dove l’aria è calda e umida, si respira poco e male, l’odore di uova marce di idrogeno solforato, un gas altamente tossico, fa perdere i sensi.
Noorullah è "figlio d’arte", è un minatore. Come suo padre Najibullah, 35 anni, da venti cavatore senza scelta. Come il nonno e il bisnonno. E ora che i taleban hanno deciso di spingere sull’oro nero, per tentare un rilancio disperato dell’economia del Paese, di bambini agili, svelti, sfruttati come lui c’è un gran bisogno.
I funzionari del governo taleban hanno reso noto che una singola miniera di carbone genera un profitto di 850 mila dollari in sei mesi. Ossigeno, per una nazione allo stremo. Dopo che gli aiuti internazionali che costituivano tre quarti del bilancio prima di agosto di un anno fa sono stati bloccati, e mentre la banca centrale di Kabul non riesce ad attingere ai 7 miliardi di dollari di riserve estere congelati, il carbone sembra una delle poche strade su cui spingere. Archiviata la linea "ecologista" del precedente esecutivo, il rilancio passa attraverso l’ipersfruttamento dei minerali. Dai cunicoli delle valli del Nord, sotto la città di Mazar-i-Sharif, lungo le strade precarie di montagna partono di continuo camion fino a Kabul, e poi verso il Pakistan, da dove il carbone inviato spedito in Cina. L’export verso Islamabad è raddoppiato, fino a 4 milioni di tonnellate, da quando l’Emirato islamico è al potere. Le miniere attive sono diciassette su ottanta, di proprietà anche cinese, come la cava di rame di Mes Aynak, la più grande conosciuta al mondo, della società statale China Metallurgical Group Corporation, ma l’estrazione qui non è ancora cominciata.
La ricchezza mineraria va spremuta fino all’osso, e i bimbi sono una risorsa fondamentale. Pazienza se il prezzo sono la vita e lo sfruttamento dei più piccoli. Un sondaggio di Save the children rivela che una famiglia su cinque in Afghanistan è stata costretta a mandare i figli a lavorare negli ultimi sei mesi, per far fronte alla povertà totale. Una su tre ha perso tutto il reddito nell’ultimo periodo, e dunque tocca ai figli mantenere i genitori. Il lavoro minorile è un problema da decenni nel Paese. Ma le sanzioni internazionali hanno estremizzato la situazione, spingendo la caccia disperata ai giovani minatori. Le inchieste del Financial Times e di Vice rivelano condizioni disumane, al limite della sopportazione fisica, per questi baby-lavoratori: dodici, anche quindici ore chiusi in cunicoli claustrofobici, in cui non entra nemmeno una pala. Il carbone è spaccato a mano, con una piccola sbarra di ferro, senza l’uso di macchinari. Ogni cavatore - per buona parte sono bambini o adolescenti - può sopportare non più di dieci o quindici minuti di attività consecutiva, poi deve chiedere il cambio, andare fuori e respirare, per non morire. La paga? 500 afghani al giorno, 7 dollari, appunto. Per i più "fortunati" che svolgono una mansione meno faticosa, come ad esempio guidare gli asini carichi di materiale lungo i sentieri tortuosi, lo stipendio scende a 3. Intanto, il costo della vita è aumentato, a partire dai prodotti di base, riso e grano, quasi raddoppiati.
«L’attenzione riservata dall’Emirato islamico agli scambi di materie prime è maggiore di qualsiasi altro governo precedente. Vogliamo separare il business dalle questioni militari», ha dichiarato con tono trionfale Nooruddin Azizi, il ministro del Commercio di Kabul. Gli islamisti si sono anche impegnati a smettere di sfruttare una delle risorse più famigerate e redditizie per l’Afghanistan: i papaveri da oppio. Il regime ha annunciato ad aprile una legge che vieta la coltivazione della pianta base per la produzione di stupefacenti come l’eroina, ma secondo gli esperti è troppo presto per dire se verrà applicata.
Complessivamente, più del 90% degli afghani patisce la fame e l’indigenza da agosto scorso: salta i pasti o non mangia per interi giorni, spiega Human Rights Watch. «Uno dei miei cugini mi ha detto che quello in miniera è un buon posto di lavoro, affidabile», confessa un altro Noorullah, 18 anni dichiarati, ma ben più giovane nell’aspetto, schiavo nella cava di carbone di Dan-e -Tor. Appartiene all’etnia hazara, la sua famiglia possiede terreni a Ghazni, ma la siccità ha bloccato le coltivazioni. Per questo, lui è l’unica speranza, per la famiglia, di racimolare uno stipendio per tutti, per portare qualcosa sulla tavola.