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 2022  agosto 07 Domenica calendario

Biografia di Marcello Mazzarella raccontata da lui stesso

“C’è stato un momento in cui tutti pensavano fossi un attore geniale. Chiedevano di me. S’interrogavano, interpretavano ogni mia sfumatura come qualcosa di speciale”. E così a Marcello Mazzarella offrivano riflettori e suggestioni, coperte di lino e teste pronte ad annuire, pronte a inquadrare il suo volto dentro un contesto da divo. E poi? “(Sorride) Forse si sono ricreduti”. O forse non hanno capito il suo lato B, il lato celato ma denso di luce, dove l’avventura finisce dove inizia l’uomo, dove l’uomo rinasce quando affronta la passione: “Ho lasciato quattro posti fissi, mi hanno preso per pazzo, ma dovevo diventare attore”. E in nome dell’ossessione è fuggito dalle certezze e ha scoperto l’approssimazione più estrema: quella della strada.
Per tre anni ha vissuto dentro una tenda, sotto il cielo di Roma.
Bohémien.
Homeless.
Situazionista.
O in cerca di una “strada”.
Fino a quando è diventato Proust in un film di Ruiz e quella strada si è riempita di stelle.
Insomma, la credevano geniale.
A un certo punto viaggiavo in un’atmosfera di allegria e soddisfazione, accettato dal cinema internazionale; (pausa) all’improvviso trovavo ovunque fotografi e giornalisti che mi chiamavano, che moltiplicavano questa euforia. E io mi sentivo finalmente nel posto giusto all’interno generale dell’esistenza.
Le girava la testa.
Ero un palombaro del piacere.
Da perdere i giusti riferimenti.
Se il pugile non ha un bravo allenatore, un allenatore preparato a valutare correttamente peso e categoria, rischia di prendere i ceffoni.
Quindi…
Il cinema italiano ha un difetto: ti utilizza, si serve di te e poi ti rimpicciolisce.
Un vortice.
È il retaggio del neorealismo, il problema è che allora c’erano dei geni dietro la macchina da presa, oggi molto meno.
Il suo primo ruolo importante è quello di Marcel Proust ne Il tempo ritrovato.
E fino a quel momento avevo arrancato: galleggiavo tra la legittima speranza, la necessaria determinazione e il timore fosse solo una follia; (pausa) poi ho conosciuto Raúl Ruiz (regista cileno) ed è mutato il contesto intorno e dentro di me; (pausa) devo ringraziare Piero Citati e il suo libro dedicato a Proust: ho preparato il ruolo sulle quelle pagine.
Dall’anonimato a un cast incredibile.
(Ride) Io tra Catherine Deneuve, Emmanuelle Béart, Vincent Pérez e John Malkovich.
Intimidito.
Per niente; (pausa) in mezzo a loro non interpretavo Proust. Io ero Proust; (pausa) tempo dopo mi trovavo a Mosca, su un set con Depardieu; durante un cambio di scena mi ferma e regala una perla: “Marcello, ci sono attori che recitano e attori che vivono”.
Esempio di condizione proustiana.
Di estraneità totale e Ruiz lo permetteva, non ti trattava come una tazzina da caffè, ma prima di entrare sul set cercava di costruire una relazione umana; (pausa) amo quei registi che vivono la storia, quelli che si piazzano la telecamera in spalla e affondano dentro al set.
Sarebbe un attore perfetto per Abel Ferrara.
Ci ho provato, ma non mi si è filato; (torna a prima e sorride) il provino per Proust era in francese e non conoscevo una sola parola in quella lingua.
Le è andata bene.
Recitare con Emmanuelle Béart è benissimo.
Si è innamorato di lei?
(Sorride) La volevo sposare, ma era fidanzata.
Torniamo a quel successo: lo ha saputo gestire?
Allora, quando mi mettevano un microfono o una telecamera davanti, cominciavo ad agitarmi, cadevo nel panico, temevo le critiche.
Oggi?
Un po’ me ne fotto.
Il suo collega Tommaso Ragno sostiene qualcosa di simile.
Lui ne ha passate talmente tante, conosce così bene la sofferenza, da poter temere solo la morte; (pausa) forse neanche la morte; (altra pausa) Tommaso e Maurizio Lombardi sono tra i migliori attori della scena teatrale attuale e Maurizio è un altro che non teme nulla, in grado di giocare e scherzare anche un secondo prima del ciak: per lui la pioggia lo bagna e il vento lo asciuga.
E lei?
Prima del ciak? Me la faccio sotto; (cambia tono) ricordo Malkovich sul set: era una risata continua, un agitarsi, un urlare. Io zitto lo ammiravo. Tempo dopo ho capito che era un modo per allentare la tensione; (si porta la mano al mento) a volte credo che l’Accademia rovina gli attori.
Per Proietti non era così essenziale.
(Ci ripensa) Rovina è esagerato, ma altera la personalità, mentre l’unico aspetto fondamentale è non avere paura, non perdere la fiducia in noi stessi.
L’ha mai persa.
Come attore di cinema dipendi da varie dimensioni, compreso il montaggio: in molte occasioni sono stato massacrato, magari perché dovevano inserire il figlio di o la moglie di.
Ha mai temuto un ruolo?
Quando sono diventato Bernardo Provenzano (nella serie Il cacciatore): troppo iconico, troppo misterioso, troppo inglobante e soprattutto i personaggi mi entrano dentro, mi deformano, mi influenzano e non volevo contagiarmi da un uomo del genere.
E poi?
Mi hanno consigliato di tornare il palombaro di un tempo, in grado di immergersi negli abissi; (pausa) nella vita ho occupato quasi tutte le caselle delle esperienze, eppure sono qui.
Sopravvissuto.
Sono partito da Erice e ho lasciato quattro posti fissi.
Alla Checco Zalone.
Ero un palombaro della Marina, quindi due anni a Beirut nel Battaglione San Marco, ho lavorato con la Legione Straniera e con i Marines statunitensi; poi ho vinto dei concorsi statali ma in me è nata la crisi.
Che è successo?
Non era ciò che desideravo.
E allora?
Sono partito per Roma e mentre cercavo casa vivevo nell’Ostello della Gioventù; una notte mi hanno rubato quindici milioni, tutto quello che avevo messo da parte. È stata la mia fortuna.
Perché?
Non avevo più scuse.
Soluzione?
Per tre anni sono sopravvissuto grazie alla Caritas, mangiavo a San Pietro e dormivo per strada, sotto gli alberi o tra le macchine; (cambia tono) ho conosciuto i bassifondi, quelli veri, non quelli raccontati da chi per strada non è mai stato.
Sempre senza paura.
Assolutamente! E non ho lasciato il mio sogno da attore: la mattina mi lavavo e andavo in cerca di provini, fino a quando Claudio Caligari mi ha chiamato per il suo secondo film (L’odore della notte) e grazie alle cinquecentomila lire guadagnate la mia vita è cambiata.
In che modo?
(Ride) Mi sono iscritto nella palestra sotto villa Borghese.
Luogo di vip: costosa.
Questo è il bello: lì avevo l’armadietto ed era la mia casa; (Sorride) la notte dormivo per strada, anche proprio a villa Borghese dentro una tenda; la mattina entravo in palestra, mi lavavo, cambiavo e recuperavo la mia dignità.
Dalle stelle alle stalle è perfetto per lei.
Per l’inverno avevo trovato un posto perfetto: sopra i soffioni della metropolitana, così non sentivo il freddo.
Che periodo era?
Il 1998 e la successiva salvezza è stato Ruiz, per questo lo ringrazio in continuazione; (abbassa la voce) quando mi ha preso ho mollato i miei vestiti da “strada”, ma prima di lasciarli li ho ringraziati per la compagnia e il calore di quegli anni.
In quei tre anni, oltre alla palestra, cosa faceva?
Niente, se la palestra era chiusa mi lavavo con i Pampers, poi leggevo, pensavo, cercavo ogni scappatoia mentale per non deprimermi e soprattutto giravo con il book fotografico per i provini.
Il cibo?
Mangiavo pochissimo, un po’ di più se ottenevo una comparsata al cinema o un ruolo a teatro.
I suoi colleghi sapevano della situazione d’indigenza?
Alcuni.
E…
Un amico mi ha ospitato qualche giorno in un sottotetto vicino a Fontana di Trevi; quei tre anni sono stati un’avventura fantastica.
A Erice sapevano?
Nooooo, assolutamente, non avrei mai permesso alle persone di ridere di me.
Addirittura.
Avrebbero commentato: hai lasciato quattro posti fissi, tutti ambiti, per ridurti così; (pausa) ma io volevo le emozioni, soprattutto dopo la morte di mio padre, mentre da impiegato ero un depresso.
In quei tre anni non ha mai pensato: forse ho fatto la cazzata?
Eccome! (Sorride) Prima di Ruiz mi aveva scelto Alberto Sironi per un ruolo importante nella serie tv Montalbano; una sera mi chiama Alberto, si scusa, e mi confessa di averci ripensato.
Una botta.
Avevo speso tutti i soldi per comprare i libri di Camilleri.
Neanche sua madre sapeva?
Le chiedevo giusto la ricarica del cellulare; (ride) possedevo un telefono così grande da sembrare una lavatrice; (pausa) dopo lo smacco di Montalbano ho passato una notte complicata e invece il giorno dopo è arrivata la chiamata da Cinecittà per il provino con Ruiz.
Porta e portone.
Allora sono andato in palestra, ho aperto l’armadietto e ho indossato il mio abitino da provino. Quando sono arrivato a Cinecittà non me ne fregava nulla, ero pronto a tutto, anche a bluffare sul francese.
In quei tre anni ha mai rischiato un’aggressione.
No, era una Roma diversa, più inclusiva, più dolce.
O lei era più incosciente.
Non lo so; (sorride) comunque dormivo sempre con qualcosa accanto a me, nel caso avessi dovuto difendermi.
Gli aspetti più complicati?
Gli odori, il cibo, il dover recitare tutte quelle preghiere, altrimenti alla Caritas non beccavi nulla; (pausa) almeno mi aiutavano.
Tra poveri c’era solidarietà?
Macché, ho visto persone massacrarsi per una lampadina; tutta quella retorica di bontà e condivisione è spesso una cavolata, soprattutto si è costretti a lottare per quel poco.
Ha mai sparato?
Ho il porto d’armi.
Ripeto: ha mai sparato?
Solo al poligono, per fortuna.
Ha dichiarato: “Ho accettato tutti i ruoli per poter vivere”. Ora è chiaro perché…
È così, non potevo sottrarmi. E questa storia, questo atteggiamento ha contribuito alla mia formazione.
Allora li rifarebbe tutti.
Se avessi avuto la libertà economica ne avrei girati tre o quattro; (pausa) non esistono solo le star del cinema, ma pure gli esseri umani.
Chi è lei?
Bisognerebbe chiederlo ai miei personaggi.