Corriere della Sera, 7 agosto 2022
Lino Musella: il mio Brancaleone tragico
Pataffio, emblema di epitaffio o pastrocchio, come diceva Fellini qualcosa che finisce male: nel primo dei due film italiani in concorso a Locarno, siamo spinti indietro in uno sgualcito e strampalato, straccione e profetico Medioevo da commedia dell’arte ma anche assai contemporaneo. Il regista Francesco Lagi si è ispirato al romanzo del ’78 di Malerba, ma alzi la mano chi non ha pensato a Brancaleone, cult di Monicelli del ’66 o al musical Alleluja, brava gente!.
«Certo, quel ricordo c’è», esordisce il protagonista Lino Musella, straordinario attore di teatro (in questa stagione ha portato in giro sei spettacoli, una memoria degna di Oliver Sacks) di cui ora si accorge anche il cinema, tanto che a Venezia sarà in Princess di De Paolis sulle donne africane sfruttate. «Quello del Pataffio è un Brancaleone tragico in cui riconosciamo i tratti ridicoli della commedia, quasi Molière: io sono un borghese gentiluomo neo sposo che cerca con volgare ansia di nobiltà il suo castello, ma in un meccanismo grottesco che si rivela tragicamente attuale».
È corale, colorato e divertente il film che uscirà in sala il 18 agosto, girato in Ciociaria fra castelli diroccati. «Terra bellissima che ci regala un realismo appena ritoccato dalla scenografia. Ogni personaggio conclude una traiettoria, come una favola geometrica e politica in cui alla fine, dopo perfino qualche domanda sull’anima, si salva solo il prete». Che è Alessandro Gassmann, in un focoso ed affettuoso omaggio mimetico al padre, inserito in un cast di eccellenze giovanili con Giorgio Tirabassi, Viviana Cangiano, Giovanni Ludeno e Vincenzo Nemolato (due armigeri che si amano senza cadere in alcun girone dantesco, gli unici a soddisfare il sesso), Daria Deflorian castellana de noantri e Valerio Mastandrea, villano di campagna che non riesce a diventar borghese.
«Con lui, su una tavola imbandita, giro la scena più dura, perché è difficile mangiare al cinema – dice Musella —. Così, per un solo ciak, ci sbraniamo un pollo con le mani e pensieri anche unti, perché propongo nel cibo la ricompensa a quel poveraccio che muore per aver troppo mangiato come si conviene al doppio gioco di una società moderna». Una digestione amara, c’è il ricordo di ricotte pasoliniane.
«Il film pare che scherzi ma poi ti fa deragliare e nella seconda parte mostra le sue vere intenzioni con un finale quasi beckettiano in cui io scappo senza sapere bene da cosa, forse dalla solitudine, da me stesso: un ridicolo e disturbante viaggio nelle sfere del potere ma con gli optional comici del Medioevo farsesco con galline in libertà, grazie anche al mio matrimonio che finisce in un bianco macabro». Tutto risponde in un certo modo all’oggi anche se viene da lontano: «C’è dentro il grande tema della Morte, la consapevolezza di una doppia natura, il senso del teatro e il gusto della parola che da ridicola si fa tragica».