Anteprima, 15 luglio 2022
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Biografia di Eugenio Scalfari
Eugenio Scalfari (1924-2022). Giornalista. Fondatore del quotidiano la Repubblica (14 gennaio 1976), da lui diretto dal 1976 al 1996. Già cofondatore, con Arrigo De Benedetti, del settimanale L’Espresso (2 ottobre 1955), da lui diretto dal 1963 al 1968. Scrittore. Politico (deputato del Psi dal 1968 al 1972). «Nasce a Civitavecchia e presto emigra a Sanremo dove il padre, Pietro, legionario fiumano, ammiratore del fascismo di D’Annunzio e non di Mussolini, è chiamato a dirigere il Casinò. Nella città ligure frequenta il liceo Cassini con Italo Calvino, un’amicizia profonda che durerà fino alla morte dello scrittore: “Mai l’ho assimilato a me – ha confessato Scalfari nel libro-racconto fatto ad Antonio Gnoli e Francesco Merlo – mai l’ho assimilato come usano gli amici delle grandi personalità scomparse; non ho fatto di Calvino morto un altro Scalfari, il mio doppio, la mia coscienza riflessa, non me lo sono annesso con quella sottrazione di cadavere che è tipica in Italia”. Negli anni giovanili Scalfari aderisce al fascismo. Scrive sui giornali della gioventù universitaria. Lo fa con una passione molto precoce per il giornalismo che finirà per attirargli le ire del regime. Viene cacciato da “Roma Fascista” per aver scritto una serie di articoli sulle speculazioni edilizie di alcuni gerarchi nell’area dell’Eur. Non nasconderà mai quella sua militanza giovanile: “Una volta un ragazzo, leggendo non so quale giornale, mi disse: ‘Qui sostengono che Scalfari è stato fascista, monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e democristiano’. Gli risposi che non ero mai stato democristiano, neppure alla lontana, né comunista, anche se con Berlinguer ho cominciato a votare per il Pci. Il resto, gli dissi, è tutto vero”» [Griseri, Sta]. «Non ha solo fondato giornali. Ha anche diretto per cinque mesi una casa da gioco nell’Italia del dopoguerra, a Chianciano, seguendo le istruzioni del padre, direttore del casinò di Sanremo. La tecnica, raccontava nelle conversazioni private, era la stessa. L’aveva appresa pure dal suocero Giulio De Benedetti, padre della prima moglie Simonetta, per vent’anni leggendario direttore della Stampa: «Bisogna essere come il domatore del circo; avere sempre un numero pronto, per sostituire il numero che non va più». L’altro suo punto di riferimento fu Arturo Toscanini: una mattina in cui il giornale non l’aveva soddisfatto, fece ascoltare ai capiservizio la registrazione della sfuriata con cui il grande direttore d’orchestra traumatizzava i suoi musicisti che avevano sbagliato i tempi. Scalfari non veniva da sinistra. Il padre Pietro fu legionario con D’Annunzio a Fiume (lo zio Antonio ebbe una medaglia d’argento al valor militare e la spina dorsale spezzata: divenne morfinomane, morì suicida). Ne L’uomo che non credeva in Dio, forse il suo libro più bello, Scalfari confessa l’infatuazione giovanile per il regime: la notte della proclamazione dell’Impero, i tripodi di bronzo accesi, la voce del Duce. Al referendum del 2 giugno 1946 votò monarchia. La sinistra fu l’approdo scelto anche per dare ai suoi giornali un pubblico, oltre che un nemico: per vent’anni Craxi, per altri venti Berlusconi. Sapeva fare tutto: il settimanale e il quotidiano, l’editoriale e l’intervista, il saggio e il romanzo, oltre a titoli che hanno fatto la storia del giornalismo: Capitale corrotta nazione infetta, L’Africa in casa, L’avanguardia in vagone letto (era il reportage del suo amico Sandro Viola sul Gruppo ’63), Nottetempo casa per casa (era la deposizione del generale dei carabinieri Zinza sul piano Solo)» [Cazzullo, CdS]. «Alla fine è arrivata, la Regina ha toccato il suo corpo esile, fragilissimo. E lui non s’è fatto trovare impreparato. Pochi come Eugenio Scalfari sono stati capaci di accogliere la morte con altrettanta vitalità. Fino agli ultimi giorni, prima di scivolare in una sorta di torpore, è stato vigile sul suo paesaggio mentale che andava acquistando profondità e colori diversi. E fino alla fine è rimasto un giornalista, un cronista curioso che ci raccontava la sua traversata vegliarda verso un pianeta a noi sconosciuto. “Papà hai paura della morte?”, gli chiedono le figlie, Enrica e Donata, nell’ultimo splendido documentario Sentimental Journey. Lo sguardo arriva sereno, quasi non ci fosse bisogno del suo no fermo. Si muore desiderando, diceva. Desiderando di scrivere. Desiderando di amare. Desiderando di essere sempre nelle contraddizioni del mondo» [Fiori, Rep]. Stamattina su Repubblica due pagine di necrologi e 24 pagine dedicate. Oggi in Campidoglio si terrà la camera ardente. Domani alle 10.30 la cerimonia di commemorazione.