Corriere della Sera, 2 agosto 2022
Il problema di essere bassi
«Natura con un pugno lo sgobbò: “Canta, gli disse irata”; ed ei cantò». Così il linguista, scrittore e patriota italiano (e dalmata) Niccolò Tommaseo, autore con Bernardo Bellini dell’imponente Vocabolario generale della lingua italiana, sfregiò con una rasoiata Giacomo Leopardi in un odioso epigramma scritto quando il poeta ancora era vivo e edito subito dopo la sua morte, a metà giugno del 1837.
Per lui quello era, l’autore dei Canti e dello Zibaldone. Un gobbo. Sciancato. Nano. Certo, che fosse straordinario lo sapeva. Lo dimostra il suo giudizio sulle Operette morali: «Ho letto il libro del Conte Leopardi: mi parve il libro meglio scritto del secolo nostro; ma i principii, tutti negativi, non fondati a ragione, ma solo a qualche osservazione parziale, diffondono e nelle immagini e nello stile una freddezza che fa ribrezzo». La voce «nano» del Vocabolario, del resto, dice tutto: «Uomo mostruoso per piccolezza». Una definizione che ricalcava quella dello scienziato svedese Carl Von Linné che nel 1767 si era inventato l’Homo Sapiens Monstruosus e quella ancora più datata dell’Accademia della Crusca del 1612: «Huomo mostruoso, per piccolezza».
Una definizione antichissima e ributtante. Che fece soffrire («sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza...», confidò a Pietro Brighenti nel 1821) non solo Leopardi, il quale era sì piegato dai dolori e alto solo 141 centimetri per una infiammazione cronica alla colonna vertebrale (spondilite anchilopoietica, pare) tanto da esser soprannominato a Napoli «’o scartellato», ma non era affatto affetto dal nanismo. Come del resto troppi brevilinei, prima e dopo Renato Brunetta, infangato giorni fa dal solito schizzo di guano maleodorante, hanno sofferto mille pene subendo le stesse, spregevoli, ributtanti umiliazioni.
Da sempre, come testimonia lo scheletro ritrovato in Calabria di «Romito 2» (un ventenne di 12 mila anni fa alto un metro e sepolto con una donna più grande adagiata ad avvolgerlo quasi lo proteggesse), l’essere umano ha a che fare col nanismo. E già nel 2246 a.C. un commerciante egizio risalì il Nilo dal Corno d’Africa a Menfi per donare al faraone Pepi un «nano da corte». Il primo d’una serie interminabile. In realtà pare fosse un pigmeo, ma le differenze, per millenni, non hanno pesato troppo. Ciò che contava, per re, imperatori, cesari, sultani, papi o cardinali era averne a corte più possibile. Basti dire che il diplomatico francese a Roma Blaise de Vigenère raccontò di un banchetto del cardinale Vitellozzo Vitelli, «nel quale fummo serviti tutti da trentaquattro nani, di piccolissima statura, quasi tutti contraffatti e deformi».
I leader
Gramsci non arrivava a 149 centimetri; Benito Juárez, padre del Messico moderno, toccava i 137
Era il 1556. Ottant’anni dopo re Carlo I d’Inghilterra si vantava d’avere nei suoi domini l’uomo più alto (William Evans, 2 metri e 20) e quello più minuscolo (45,72 centimetri) del mondo: Jeffrey Hudson, regalato alla regina Henrietta «come una bestiolina da compagnia», sbucato a sorpresa da una torta durante un pranzo di gala e ricordato per i versi de La Jeffereide del poeta William Davenant deciso a celebrare «la vittoria da lui riportata contro un gallo d’India», ma più ancora per un tragico duello. Stanco delle battutine sulla sua statura da parte di un gentiluomo, William Crofts, lo sfidò a duello. E quando quello si presentò «armato» d’una siringa per purgare gli animali, lui non ci vide più, prese la sua pistola e lo uccise. Mandato a morte (anche per aver violato il suo ruolo di clown incatenato all’allegria) nel viaggio verso la condanna finì tra le mani dei pirati barbareschi che lo tennero prigioniero (abusandone, sembra) per 25 anni. Quando Henrietta lo fece riscattare, era un uomo distrutto. Di lui restò uno straordinario ritratto di Antoon van Dyck: Henrietta, Jeffrey e una scimmietta. Forse la stessa, chissà, con cui un giorno era stato costretto a battersi per «allietare» gli invitati.
Poche figure hanno ispirato pittori, scultori, mosaicisti e musicisti quanto quella del nano. Dalla nana al centro della Camera degli sposi di Mantegna al «Gradasso» di Giulio Romano, dal Niño de Vallecas di Velázquez alla Doña Mercédes di El Greco, da La Bailarina di Picasso al Nano Morgante del Bronzino fino ai chiassosi manifesti del circo Barnum sul minuscolo «Napoleone a cavallo» Tom Thumb, i nani ritratti sono un’infinità. Tutti tristi. Malinconici. Svuotati. Non ce n’è uno che sorrida. Peggio ancora nel ciclo della Passione di Hieronymus Bosch, in particolare L’arresto di Cristo. Dove Gesù è circondato da carnefici dai volti mostruosi e il più orrendo di tutti, ovvio, è lui, il nano. Brutto. Storto. Ambiguo. Sempre nella scia dell’idea della bellezza e della bruttezza cardine della cultura occidentale con l’abbinamento kalòs kai agathòs: il bello era identificato col buono, il brutto col cattivo.
Eppure la storia è piena di persone basse, ma di altissima qualità e statura intellettuale, artistica, politica. Da Esopo, uno dei padri della letteratura descritto come «repellente alla vista, schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, olivastro, bassotto...» a Wolfgang Amadeus Mozart, che pare non superasse i 152 centimetri, come Henri de Toulouse-Lautrec, che soffriva d’osteogenesi imperfetta, la malattia delle ossa di cristallo esposte a continue fratture, ma rappresentò come nessuno la Belle Époque. Da Antonio Gramsci che non arrivava a 149 centimetri, era stato colpito dal morbo di Pott e inutilmente da bambino venne appeso al soffitto nella speranza si allungasse, al padre del Messico moderno Benito Juárez, che toccava appena i 137. Fino a Matthias Buchinger, «l’ometto di Norimberga» alto solo 74 centimetri nato a fine Seicento e descritto nel Book of Wonderful Characters (1826) come un prodigio senza uguali: «Nato senza gambe e senza braccia (...) era poco più d’un tronco d’uomo a eccezione di due escrescenze che partono dalle scapole, somiglianti più a pinne d’un pesce che a braccia umane» con cui costruiva minuti pennini per scrivere poesie e canzoni amatissime dalle nobildonne e suonare l’arpa e cesellare preziose miniature e perfino un autoritratto con una enorme parrucca (oggi al British Museum) dove ogni ricciolo era un salmo biblico in micro scrittura. Un «mostro» lui?
Per non dire di Michel Petrucciani, il geniale pianista francese d’origine italiana che conquistò il mondo quando era ancora quasi adolescente. Soffriva anche lui, come Toulouse-Lautrec, della malattia delle ossa di cristallo e come lui se ne andò a trentasette anni, senza arrivare mai a passare un metro d’altezza. Quando Giovanni Paolo II gli spalancò le braccia, al Congresso Eucaristico di Bologna nel 1997, le telecamere lo ripresero mentre veniva avanti su due stampelle che parevano bastoncini. Appena toccò la tastiera, però, apparve di colpo immenso.