il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2022
Ivano Marescotti ora insegna teatro
Con il teatro ha chiuso in bellezza l’anno scorso con Zio Vanja, del teatro Stabile di Torino, con la regia dell’ungherese Kristza Szekely. Il cinema lo ha salutato dopo Criminali si diventa, uscito nel 2021 e diretto da Luca Trovellesi Cesana e Alessandro Tarabelli. “Sul set e sul palcoscenico non mi sono mai annoiato. Ma ultimamente mi facevano proposte che non mi entusiasmavano più. E poi dopo una certa età le opportunità professionali diminuiscono. Per questo ho deciso di passare al terzo tempo della mia vita: la vecchiaia”.
Ivano Marescotti, romagnolo di Bagnacavallo (Ravenna), ha 76 anni. Ma il suo addio definitivo alle scene, annunciato lo scorso febbraio dopo oltre quarant’anni di carriera tra teatro e cinema e dopo una sessantina di premi, in realtà non è ancora davvero arrivato. Con gli allievi della sua scuola di recitazione, Teatro Accademia Marescotti, ha fondato una nuova compagnia teatrale con la quale sta allestendo uno spettacolo che debutterà in settembre. “Ma non chiedetemi il nome, perché ancora non lo abbiamo deciso”, dice.
Marescotti, lei ha girato 120 film e ha portato in scena 1.300 recital riempiendo sempre le sale. Ha deciso di ritirarsi ma poi ecco l’avventura della compagnia teatrale. In fondo resta sulla breccia.
Solo perché i miei allievi dell’ultimo anno sono molto bravi. E con otto di loro sto lavorando a un nuovo allestimento. La scuola è l’ultima cosa che mi tiene legato al teatro. Per il resto sperimento la terza età, che è la mia terza fase, dopo essere stato prima un impiegato del Comune di Ravenna e poi un attore. Ho scoperto che ogni fase dell’esistenza è un inedito. E questo ha destato in me molta curiosità, uno dei motivi per cui mi sono ritirato. Quando si è giovani ci si prende in giro da soli, pensando di essere immortali. Adesso la pelle si è raggrinzita, sento che ho meno forze. Ma vedo cose minute, alle quali prima non facevo caso, con le quali tesso la tela della mia vita.
Da impiegato ad attore. Questione di vocazione?
Macché, nessuna vocazione. Sono diventato attore per caso, per fare un favore a un amico che doveva recitare in uno spettacolo per ragazzi diretto da Patrizio Roversi e aveva avuto un imprevisto. Ho retto fino alla fine, nessuno mi ha cacciato. Anzi, Roversi mi chiese di fare le repliche. Ho cominciato così, dopo essermi licenziato. Ho fatto 4 o 5 anni di gavetta durissima, senza una lira in tasca. Ho anche rischiato di diventare un barbone. Fino a quando non ho avuto la botta di culo di incontrare Giorgio Albertazzi, con cui ho fatto uno spettacolo vero, pagato tutti i giorni.
Cinema o teatro: a cosa si sente più legato?
Al cinema. È una sfida stare sul set. A volte parti dall’ultima scena. A volte sei solo con l’operatore. Il teatro è una cosa diversa. Al cinema ho dato tanto. Ho girato molti film. Alcuni erano molto belli, altri delle autentiche boiate. Ma non è capitato solo a me, anche a star come Anthony Hopkins.
Ha lavorato con grandi registi…
Sì, oltre un centinaio. Da Silvio Soldini, che mi ha scoperto e voluto per L’aria serena dell’Ovest, a Ridley Scott. Mi sono trovato bene quasi con tutti. Si scherzava. C’era complicità. Solo con Gabriele Muccino, sul set di A casa tutti bene, mi sono sentito fuori posto, non a mio agio.
La sua attività teatrale è molto legata anche al recupero del dialetto romagnolo.
All’inizio la mia inflessione è stata un problema. Masticavo un italiano che tradiva le mie origini, e mi sgamavano subito tutti. E allora ho dovuto seguire i corsi di dizione, per far perdere le tracce della mia cadenza. Poi però ho scoperto il poeta dialettale Raffaello Baldini: un grande. Ho iniziato a leggere le sue poesie agli amici. E mi sono reso conto che potevano diventare spettacoli. Dopo, tutti hanno cominciato a chiamarmi per recitare i suoi versi.
E la comicità?
Ho fatto tanti film comici. Con Checco Zalone, in Cado dalle nuvole, imprecavo in dialetto romagnolo. Ancora adesso c’è gente che mi ferma per la strada per chiedermi di imprecare allo stesso modo.
Insomma, l’ironia ci vuole.
Senza esagerare, però. Non può essere una costante, altrimenti diventa una maschera. La satira invece la adoro. Quella bella, buona, vera.
A parte l’insegnamento e la nuova compagnia teatrale, cosa fa in questa sua terza vita?
Leggo molto, mi interesso alla politica. La sera in giardino osservo cose che prima non osservavo, come le rondini. Finalmente posso essere davvero contemplativo. L’unico difetto della vecchiaia, a parte gli acciacchi, è che è corta.