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 2022  agosto 01 Lunedì calendario

Imparare a vivere da Scott Fitzgerald

Nella compagnia del soldato americano George Sheppard, durante l’avanzata in Germania nel marzo 1945, un commilitone si suicidò per sottrarsi al combattimento. «Quando si dice strafare…» commentò Sheppard. Ecco un buon motivo per diffidare di un filosofo che ci prometta di insegnarci a vivere, perché l’unico altro, che io ricordi, che avesse strafatto come quel soldato è stato un filosofo, Benjamin, che, in fuga dai nazisti, si suicidò alla frontiera perché l’alcalde non lo lasciava passare in Spagna - se avesse aspettato il giorno dopo sarebbe stato salvo, ma in effetti anche così si è salvato, sebbene un po’ troppo. Concludere che sia quel soldato sia Benjamin avevano esagerato, peccando di un eccesso di zelo ("surtout, pas de zèle" ammoniva Talleyrand), e che non sapevano vivere, è del tutto legittimo.
Date queste premesse, pretendere di imparare a vivere da uno scrittore come Fitzgerald, la cui vita è un fallimento riscattato da una letteratura che parla di fallimenti, sembra bizzarro. Che cosa ci può insegnare Dick Diver, il promettente medico di Tenera è la notte che dopo le ville in Costa Azzurra e le cliniche in Svizzera finisce alcolizzato e screditato, apre uno studio a Buffalo «ma evidentemente senza successo», e poi finisce a Geneva, New York, dando a Nicole, l’ex moglie, «l’impressione che si fosse sistemato con una che gli badava alla casa»? Più o meno quello che può insegnarci Monroe Stahr, l’eroe di Gli ultimi fuochi: «Non si può rimanere esclusi dal cinema, a meno che non si sia morfinomani o alcolizzati». E sarà anche un immortale mito romantico, quello di Gatsby, e il suo assassinio in piscina ha la grandezza del Giulio Cesare di Shakespeare, però che cosa insegna, se non che nascere da una famiglia piccoloborghese nel Midwest è un peccato inespiabile?
Sbagliando si impara, o altri imparano, ecco l’insegnamento. È la morale di romanzi e racconti, uno più perfetto dell’altro, che sono altrettante prediche barocche sull’insuperabilità del destino e sulla immancabilità della punizione. Le norme di prudenza e di saggezza enunciate pianamente nelle lettere alla figlia Scottie, nelle quali risuonano i toni del De Profundis di Wilde, si trasformano, nella narrazione, in auto da fé e rappresentazioni sacre.
E se la trama di Belli e dannati può apparire un po’ troppo scoperta e didascalica, è difficile sottrarsi a un brivido gotico di fronte alla perfezione di Babilonia rivisitata, che a giusto titolo Harold Bloom considera la più grande delle novelle di Fitzgerald, con quel finale in cui il peccatore redento, che sta per riavere sua figlia sottrattagli per cattiva condotta, perde di nuovo tutto quando due compagni di bisboccia suonano al campanello e ricordano, di fronte ai borghesi risentiti cui è stata affidata, i tempi di Babilonia, la Parigi dell’età del jazz. Più esattamente, l’insegnamento è «la vita è tutta un processo di disgregamento», d’accordo con l’inizio di Il crollo, le tre brevi sequenze autobiografiche del 1936 unanimemente considerate come la sua realizzazione maggiore. E va bene.
Ma perché a questa morale molto sensata e molto convenzionale, alla portata di qualunque bigotto, Fitzgerald riesce a conferire - il vero miracolo è questo - un tono epico e marziale, una grandezza degna di Austerlitz o meglio ancora di Waterloo? Per Gatsby si è giustamente vista l’influenza di Conrad, Gatsby è Kurtz e Nick Carraway è Charles Marlow, ma per gli altri? Da dove vengono fuori questi eroi del naufragio?
Ho un’ipotesi. Fitzgerald, diversamente da Ernst Jünger (solo un anno più giovane, pluriferito e pluridecorato, e che si era persino concesso un prequel in Africa, arruolandosi quindicenne nella Legione straniera), da Hemingway o da Drieu La Rochelle, arrivò al fronte troppo tardi. Proprio per questo le fantasie guerresche sono onnipresenti, e i personaggi sono tutti reduci da qualcosa, ma in larghissima parte dalla guerra. Ora, mai e poi mai, in Jünger, in Drieu, in Hemingway si troverà la stessa epica (o qualcosa di anche solo minimamente somigliante) che in Fitzgerald.
Loro la guerra l’avevano conosciuta, e non ne sentivano la nostalgia nella vita civile. In Fitzgerald, invece, si è prodotto lo stesso effetto che troviamo in un altro grande romanzo dell’età del jazz, Essere e tempo di Heidegger (1927, due anni dopo Il Grande Gatsby). Se Fitzgerald era arrivato in Europa a guerra finita, e aveva inscenato nel bar del Ritz l’epopea che aveva mancato sulla Somme e a Verdun, Heidegger l’aveva osservata da lontano, prima dell’ufficio postale di Friburgo, poi di una stazione per le previsioni del tempo, una delle mansioni militari preferite dai filosofi (nel 1939-40, durante la drôle de guerre, anche Sartre fu assegnato a una postazione meteorologica). E fu proprio quella esperienza mancata della morte che lo indusse, a mio parere, ad assegnare all’essere per la morte la funzione filosoficamente centrale che occupa nella sua filosofia, a trovare nella certezza della fine la possibilità di trovare un fine per la vita e un senso per la storia.
Il tutto, se vogliamo, ha un aspetto più che lievemente paradossale, per ciò che riguarda la questione dell’imparare a vivere. Imparare a vivere, sosteneva Montaigne, significa imparare a morire, ossia essere disposti a concepire la vita come qualcosa di accidentale, di transitorio, di futile. Ma se, come ricordavo parlando di Proust, imparare a vivere sembra una impresa difficile, imparare a morire è davvero impossibile, perché come potremo mai divenire su una esperienza che, unica fra tutte, avviene una volta soltanto? È il paradosso enunciato, con immensa e candida pedanteria, da Husserl morente che scrive a Edith Stein «non pensavo che morire fosse così difficile», e che Heidegger porta all’estremo sostenendo che il lutto per la morte degli altri non è una vera esperienza della morte, che l’unica vera morte è la nostra, e che dunque (se le parole hanno un senso), chi sta scrivendo che non si può imparare a vivere, perché non si può imparare a morire, è proprio colui che è appena salito in cattedra per insegnarci che cosa sia l’esistenza autentica, cioè per insegnarci a vivere.
Ora, la strategia di Fitzgerald è molto più sottile, ed evita la contraddizione palese in cui incorre Heidegger. Di qua dal paradiso, il primo romanzo di Fitzgerald, esce nel 1920, proprio quando Freud, ormai vecchio, pubblica Al di la del principio di piacere. Sappiamo la trama del racconto di Freud: se una granata esplode a due passi da te, e hai la fortuna di salvarti, lo choc è troppo forte per pagarlo tutto intero lì per lì. Lo sconti a rate, sognando per anni l’evento traumatico. Cosa diceva Fitzgerald? «La vita è tutta un processo di disgregamento». Anche se non ti è esplosa una granata a due passi, anche se sei arrivato al fronte quando la guerra era finita, puoi avere una esperienza autentica della morte, ossia puoi imparare a vivere, e insegnarlo agli altri. E questo non predicando l’insurrogabilità della morte autentica, ossia di quella esperienza che nessun vivente potrà mai fare, se non troppo tardi per trarne qualche insegnamento, ma raccontando, con l’epopea e la melopea appropriate a un evento così assoluto, il processo di disgregamento che colpisce tutto ciò che è vivo, e la via, tortuosa ma infallibile, che conduce al fondo di bottiglia della felicità.