La Stampa, 1 agosto 2022
Coltivazioni, siamo arrivati al limite del pianeta
Potrebbe non essere questione di clima o di energia, la sesta estinzione di massa sula pianeta Terra, ma di cibo. Intendiamoci, i sapiens sono una specie prepotente e invasiva, l’unica che adatta il mondo alle proprie esigenze invece di adattare sé stessi, per cui difficilmente si estinguerà completamente. Ma entrare in decisa sofferenza e allargare il cuneo sociale che divide i pochissimi benestanti da queli che sopravvivono appena o crepano di fame, sete e stenti, quello sembra che ci stia riuscendo benissimo. E far entrare in sofferenza tutti gli altri viventi e gli ecosistemi è operazione che ci vede in prima linea da secoli. Come se fosse possibile una Terra abitata solo dai sapiens e dalle specie loro asservite o addomesticate, senza contesto naturale e senza relazioni biologiche di sistema. Un’assurdità che però sembriamo perseguire da tempo.
Tutto è dipeso dall’invenzione dell’agricoltura, che ha consentito per la prima volta nella storia naturale, a una specie, di uscire dal proprio ecosistema di appartenenza. Da quel momento le relazioni fra i sapiens e gli altri viventi sono totalmente cambiate. Coltivare la terra e non dipendere più dalla raccolta casuale ha consentito agli uomini di avere cibo in abbondanza e non obbligare tutti alla caccia e alla vita nomade. Una nuova classe di membri della tribù poteva dedicare tempo libero alla politica, alla religione e alla guerra per occupare nuovi territori. Dovunque un uomo agricoltore incontra un uomo cacciatore, quest’ultimo ha la peggio. Il territorio così si modifica indelebilmente, boschi e foreste vengono cancellati per far posto alle coltivazioni, la biodiversità si impoverisce e il numero degli uomini può solo fatalmente aumentare a dismisura. Tutto utilissimo per la specie Homo sapiens, esiziale per tutti gli altri.
Arare un terreno significa decidere di distruggere decine di piante favorendone invece altre in tempi brevissimi: nessun animale era stato mai in grado di comportarsi così. E raccogliere solo certi frutti non comportava conseguenza di alcun genere, mentre coltivare significa smontare l’ecosistema originario. Gli uomini hanno così imparato a non dare più alcuna importanza alle praterie e alle paludi, anzi a ritenerle dannose in quanto sottraggono spazio alle coltivazioni. Il contadino, per definizione, non ha bisogno degli ambienti incolti. Il problema è che, invece, gli uomini nel loro complesso sì.
Alla fine il problema potrebbe essere che non ci sia più cibo per tutti, visto che un’ulteriore espansione agricola, dopo la micidiale rivoluzione "verde" al Ddt del XX secolo, è insostenibile in termini ambientali: già oggi usiamo tutta la terra migliore e più vicina alle fonti irrigue. In un’Africa già povera i cinesi hanno acquistato intere nazioni per poter sfamare i propri connazionali. Ma anche quei territori si esauriranno presto. E non è possibile trasformare la Terra in un gigantesco orto, perché ciò comporta deforestazione, perdita di specie, depauperamento delle falde, erosione accelerata dei suoli e pesanti inquinamenti da pesticidi e fertilizzanti. Una scelta suicida, sul lungo termine, con aspetti davvero paradossali.
Se tutti gli abitanti della Cina volessero mangiare lo stesso quantitativo di carne che mangiano quelli degli Stati Uniti ci vorrebbero 50 milioni di tonnellate di carne all’anno, che significa 345 milioni di tonnellate di cereali sotto forma di carne: una cifra spaventosa che la Terra non può dare. Se, invece, gli indiani volessero mangiare pesce come i giapponesi ci vorrebbero, solo per loro, 90 milioni di tonnellate di pescato all’anno, cioè quasi tutto quello che si cattura al mondo. Non sembra ci sia più spazio, cibo, acqua per tutti. Solo che noi ricchi occidentali campiamo letteralmente sul fatto che i bisogni degli altri vengono compressi rispetto ai nostri. E, se arriva la guerra fra poveri, gli iraniani potrebbero campare sulle terre dei sudamericani. Per dirla tutta, a noi è consentito emettere quantità di anidride carbonica che non possono essere permesse, se tutti gli altri non ne emettono molta meno della media: in pratica noi respiriamo meglio perché gli altri respirano appena.
Al tempo della nascita dell’agricoltura sul pianeta ci dovevano essere, forse, alcuni milioni di individui del genere Homo. Anche la nostra specie, allora, obbediva alle regole cui si sottomettono tutti gli altri viventi: la sua consistenza era limitata dalla sostenibilità dell’ambiente. L’agricoltura cancella i limiti della disponibilità di cibo e della produttività dell’ecosistema locale: così l’uomo comincia a espandersi e arriva agli otto miliardi di oggi. La sola massa degli uomini è devastante per la Terra. È vero che anche i ratti si sono poi sparsi per ogni luogo del mondo, ma dipendono pur sempre strettamente dall’ambiente. L’uomo è invece la sola specie a distribuzione globale la cui espansione non dipende dall’ambiente ma da regole interne. Il sapiens ha dichiarato la sua indipendenza dai sistemi naturali e ha creduto di poter vivere separato dall’ambiente, come se fosse fuggito dal mondo. Invece siamo ancora tutti qui.