La Stampa, 31 luglio 2022
Tra Bertolucci e Panatta la guerra continua a colpi di tweet. Due interviste
Stefano Semeraro per la Stampa
Domenico Procacci, regista e produttore de “La Squadra”, il docufilm sui quattro moschettieri italiani della Coppa Davis anni ’70, ha ragione: «Panatta e Bertolucci sarebbero stati una strepitosa coppia comica». Cinquant’anni di amicizia e sfottò, zingarate e frecciatine che ora sono ripartite via twitter esilarando l’Italia.
Paolo Bertolucci, pure sui social vi prendete in giro ora?
«È iniziato quando ho fatto un post per invitare tutte le nonne d’Italia a fare gli auguri al «vecchio» Panatta».
Adriano ha risposto dandole del pischello e pubblicando la «wish list» per il suo compleanno, che cade il 3 agosto: maxi confezione di pannoloni, apparecchio Amplifon, 10 scatole di Prostamol, salvavita Beghelli…
«Sono regali che hanno fatto a lui e che vuole riciclare: una caduta di stile. Lui è romano, e magari duemila anni fa era padrone del mondo, ma se parliamo di ironia contro un toscano neanche entra in campo».
Servizio, e risposta.
«Ma io gli rispondo in un secondo, lui ci mette venti giorni e consulta sceneggiatori, scrittori, giornalisti, perché da solo non è capace».
La vostra prima volta?
«Ad un torneo giovanile a Cesenatico, e mi è stato subito sull’anima. Sa: il pariolino che arriva dal grande circolo, con maestro e clan al seguito. Aveva 12 anni e già si parlava di lui, io 11 e venivo da Forte dei Marmi, uno sconosciuto accompagnato da mia zia perché i miei dovevano lavorare. Poi mi battè anche. Non è stato amore a prima vista».
Quando è scoccata la scintilla?
«È stato un matrimonio combinato, come in India. Mario Belardinelli ci convocò in quattro a Formia per il primo college tennistico: io, Adriano, Mario Caimo e Totò Bon, che poi ha giocato anche in nazionale a Rugby. Mattina scuola, pomeriggio tennis. Belardinelli ci mise in camera insieme».
Immaginiamo gli scherzi.
«C’erano Ottolina, Ottoz, Mennea, Berruti, il padre di Gigi Buffon. Noi avevamo 15,16 anni, la sera i grandi facevano irruzione nelle camere e tagliavano i capelli a tutti, si figuri Panatta. Mettevamo gli armadi contro le porte e Adriano dormiva con il coltello sul comodino. Io li avvertii: se gli toccate i capelli, quello vi accoltella sul serio».
Risultato?
«Non sono mai entrati».
Che cosa non sopportava di Adriano?
«Era un rompicoglioni terribile. Sbagliava lui ed era colpa mia. Le facce, le occhiate come per dire: “guarda con chi mi tocca giocare”. La verità è che io sono riuscito a vincere in doppio nonostante la palla al piede di Panatta».
Un pregio?
«Se hai bisogno, lui c’è. Ho avuto momenti difficili nella vita, a modo suo mi è sempre stato vicino».
Cosa le invidia?
«La capacità di sopportazione».
E lei, cosa invidia ad Adriano?
«La sicurezza. Ne “La Squadra” si racconta di quando perdemmo in doppio con l’Inghilterra perché lui voleva “dare una lezione” a David Lloyd. Roba da vaffanculo negli spogliatoi. Al suo posto avrei tenuto lo sguardo basso, Adriano invece fece uno dei suoi sorrisi: «tranquilli, domani batto Taylor». Poteva sembrare presunzione, ma in quel momento capii che avevamo già vinto».
Vi sentite spesso?
«Sono passati anche mesi senza un messaggio, ad esempio durante la pandemia. Un giorno squilla il telefono: “Che fai?”. “Sto in casa, come tutti”. “Io mi rompo le scatole. Cosa potremmo fare? Cuciniamo qualcosa, dai”. Lui a Treviso, io a Verona, capisce? Al telefono. Bisogna prenderlo com’è».
Però in cucina è bravo.
«Sì ma sembra un chirurgo: “Passami l’olio, passami il sale”. Non muove un passo. E io faccio da sguattero».
Sui vini è l’opposto.
«Lasciamo perdere. Se viene a cena si presenta con due bottiglie di vino, ma si vede chiaramente che è alle elementari…».
Il momento più intenso della vostra carriera?
«L’ultima partita. Perdiamo in Davis contro l’Argentina di Vilas e Clerc a Roma, nell’83. ’"Paolo – mi fa – Io smetto”. “Bene – gli rispondo – così smetto anch’io perché mi sono rotto le palle”. Andando verso gli spogliatoi, ci siamo scambiati un sorriso di liberazione e di complicità che voleva dire: “Oh, è finita. Ma quanto ci siamo divertiti"».
Vi inseguite anche nella vita.
«Lui, mi insegue. Romano, sposa una toscana e viene a vivere a Forte dei Marmi. Io divorzio e mi sposto a Verona, lui dopo un po’ divorzia e si risposa a Treviso. Uno stalker».
Mai litigato per la politica?
«No, anche se mi fa ridere, si professa di sinistra e vive nella regione più leghista d’Italia. Mi diceva: “Ma che vai a fare a Verona, che c’entri tu con i veneti”. Ora gli piace Zaia: “È uno giusto”. Un uomo di sinistra che vive come uno di destra. Anche adesso…».
In che senso?
«Quasi tutti i weekend è a Cortina. Me lo immagino che va per i boschi, con il bastone, a cercare funghi».
Chi sta invecchiando peggio?
«Non c’è gara. Io esco tutte le sere, vado alle feste, in discoteca. Gli mando dei video e mi risponde: “Guarda con chi sono riuscito a vincere delle partite”. Un vecchio».
Mai stati concorrenti in amore?
«Mai. Ho raccolto qualcosa, per dire così, di sponda: pensavano che flirtando con me avrei convinto Adriano ad andare con loro. Però ultimamente in una occasione c’è rimasto malissimo».
Racconti.
«Ci ha scritto una signora: “Con Barazzutti andrei volentieri a cena, con Zugarelli potrei avere un flirt, per Panatta una piccola sbandata. Ma mi innamorerei follemente di Bertolucci”. Come gli è bruciato: “Il mondo si è rovesciato”. A me viene da ridere, lui rosica».
Cos’è l’amicizia?
«Non è la frequentazione, quella viene per caso, per opportunità. È fare una telefonata e sapere che l’altro arriva, non importa se sta a 100 metri o 500 chilometri».
Chi è più bravo a commentare in tv?
«Se la partita è interessante, Adriano regge. Ma appena cala si abbiocca. Io resisto di più».
Perché non fate una trasmissione insieme?
«Di proposte ne abbiamo parecchie, vedremo. Mi piacerebbe un seguito del docufilm di Procacci».
Non farete più coppia in campo?
«Le racconto le ultime due. La prima per un doppio per beneficenza, con la moglie di Ancelotti e una ex modella. La moglie di Carlo dice: “Io gioco con Panatta”. Ovviamente abbiamo vinto io e la ex modella. A rete, la signora Ancelotti mi fa: “L’anno prossimo gioco con te”. L’aveva già scaricato…».
La seconda?
«Doppio vecchie glorie a Parigi. La sera prima usciamo, facciamo tardi. La mattina dopo arriviamo al Roland Garros e ci sono i nostri avversari che si stavano allenando da un’ora e mezza. “Qui si mette male”, gli dico. Pensavo di essere lì per divertirmi, ci hanno rovinato. No, capitolo chiuso».
Gli faccia un augurio di cuore.
«Spero che a Cortina trovi tanti funghi».
Poi magari cucina un risotto e la invita.
«Il vino però lo porto io». —
Alessandro Ferrucci per il Fatto
È incredibile, ma su Twitter c’è chi si diverte e diverte; c’è chi si maschera da “leone da tastiera”, ma con il sorriso; chi a 70 anni e poco oltre mantiene intatta la voglia di goliardia e sa celare l’affetto dietro un insulto. C’è chi, come Adriano Panatta, cinguetta per ottenere un – presunto – consiglio: “Volevo ricordare a tutti che il 3 agosto è il compleanno di Paolo Bertolucci. Vorrei fargli un regalo e sono indeciso tra: maxi-confezione di pannoloni; apparecchio Amplifon; dieci scatole di Prostamol; salvavita Beghelli”.
La replica: “Caro Adriano, il tentativo di riciclare i regali ricevuti per il proprio compleanno è un gesto misero, squallido e sordido”.
I due sono amici dai primissimi anni Sessanta (“Ci siamo conosciuti a Formia e Adriano mi stava pure sulle palle”), poi sono diventati grandi insieme, carriere parallele, amicizie parallele, vite parallele, casa in comune e la storica e celebrata vittoria in Coppa Davis del 1976 in Cile, quando l’impresa sportiva è stata surclassata dalla polemica politica, tra chi riteneva inopportuno giocare contro una nazione governata dal regime di Pinochet (da vedere la serie Sky diretta da Domenico Procacci Una squadra).
Mercoledì, Bertolucci compie 71 anni e in attesa dei regali di Panatta si gode il sole della natia Forte dei Marmi.
Siete di nuovo una coppia, però comica.
(Sorride) È una storia che parte veramente da lontano, da quando avevamo undici o dodici anni, entrambi iscritti al Torneo di Cesenatico.
E…
Per me era un pariolino famoso.
A 12 anni?
Allora l’ambiente tennistico era ristretto e polarizzato su Roma e Milano; quelli forti si conoscevano e già circolava il nome di Panatta e lui si presentava con una piccola corte.
Mentre lei?
Accompagnato solo da una zia totalmente digiuna di tennis; (pausa) i miei restavano al Forte, dovevano lavorare e l’estate non si muovevano mai.
Suo padre maestro di tennis.
Avevamo un circolo con cinque campi e un bar nella zona più chic: babbo insegnava, mamma si occupava del resto; da noi venivano tutti i cummenda del tempo, tutti i grandi imprenditori.
Chi?
Sono cresciuto in mezzo agli Agnelli, i Moratti, i Bialetti; di giorno stavano da noi, poi la sera avevano il tavolo in Capannina.
Il suo ruolo?
Annaffiavo le piante, raccoglievo le palline e quando c’erano i doppi, e qualcuno era in ritardo, funzionavo da tappabuchi; (pausa) ma a 13 anni sono andato via di casa, accettato dal Centro Federale di tennis a Formia, e lì Belardinelli (storico dirigente del centro) mi ha messo in stanza con Panatta. Siamo diventati subito amici.
Proprio Belardinelli ha raccontato: “Quei due mi chiedevano le sigarette”.
Ma anni dopo, quando ormai eravamo a fine carriera; (sorride) dopo il pranzo io e Adriano ci siamo lanciati: “Ce ne dà una?” E lui: “Be’, bravi, già avete questo fisico di merda”.
Torniamo al Forte dei Marmi anni 60: cosa l’affascinava?
Guardavo tutti quegli imprenditori e mi domandavo come erano arrivati a tanto; (ci pensa) allora, fuori dal bar, c’era una macchinetta che conteneva dei chewing gum tondi e colorati, per ogni pallina era necessaria una moneta da dieci lire: un ragazzino della mia età arrivava sempre con un enorme foglio da diecimila lire, lo cambiava tutto in monete, la svuotava e le regalava.
Era invidioso?
Per niente, solo incuriosito; (cambia tono) per me la questione era un’altra: Forte era invaso dagli imprenditori per due mesi l’anno, gli altri dieci c’era il vuoto; noi lavoravamo solo quei due mesi e nella mia testa volevo ribaltare quelle proporzioni, avevo capito che qualcosa non funzionava.
Ragazzino deciso.
Fino ai 13 anni non mi sono mosso dal Forte, il massimo dell’esotico era Viareggio; poi sono andato a Bologna e ho visto il primo palazzo della mia vita, i primi camion, il caos: pensavo di stare a Los Angeles; (pausa) in Versilia negli anni Sessanta ancora si utilizzava la tinozza per fare il bagno.
Dopo in quanto a “mondo” ha recuperato.
Eravamo dei pionieri, dei folli incoscienti; (ride) una volta ero in Nigeria per un torneo e sulla strada per l’aeroporto ho visto ai lati un gruppo di occidentali in mutande: era l’equipaggio della Lufthansa che doveva riportarci in Europa. Tutti rapinati.
Torneo in Nigeria?
Sì, a Lagos, con il campo costruito come una schiena d’asino: per andare a rete dovevi correre in salita; un’altra volta ho giocato a 3.000 metri d’altezza.
Aveva un super rovescio.
Uno dei migliori, a una mano; (ci ripensa) era normale mangiare un filetto di carne alle 13 e giocare alle 15 sotto il sole. Mai un piatto di pasta. Roba da restarci secchi.
È soprannominato “Pasta Kid”.
Nomignolo affibbiato da Bud Collins (mito del giornalismo sportivo) dopo che mi ha visto stare in campo.
È un godereccio.
Bisogna essere così; (pausa) dopo la settima volta che giocavo a Parigi, un giorno ho rinunciato a un’ora di allenamento e sono andato al Louvre, con tutti gli altri tennisti che mi guardavano male, pensavano fossi matto.
Non solo il tennis…
Ci mancherebbe; poi allora si era soli, gestivamo tutto in autonomia, nessuno ci riempiva la borsa, ci programmava i viaggi, le diete o prenotava gli alberghi. Anzi, spesso dormivo ospite e mi capitava di tutto.
Esempio?
Una famiglia statunitense mi portò a messa: quando mi hanno chiesto da dove venivo ho risposto “Italy, Rome” perché “Forte” era troppo complicato. Così hanno deciso che dovevo essere un fervente cattolico.
Com’era la Roma anni Settanta?
(Sorride, tanto) Lì, ho vissuto otto anni con Adriano: giravamo per tre o quattro settimane all’estero, poi tornavamo, sentivamo i messaggi in segreteria telefonica e iniziava il divertimento.
Sbracavate.
Abitavamo in un palazzo dove al piano di sopra c’era Giorgio Chinaglia, poi Boncompagni e Arbore; quindi arrivava Mita Medici, allora fidanzata con Adriano, e scattavano le spaghettate, gli scherzi telefonici e finivamo in discoteca.
Paparazzati.
Io no, tanto stavo dietro ad Adriano e alle varie Loredana Bertè o Serena Grandi.
Si sentiva messo da parte?
(Stupito) Andava benissimo, e poi di rimbalzo beccavo pure io; ho avuto la fortuna di poter vivere il mondo: non c’è posto dove non sono stato. E inoltre guadagnavo.
Molto?
Non tantissimo, non come accade oggi, ma dai 25 ai 32 è andata abbastanza bene. Poi sono entrato nel centro federale, nominato tecnico di Davis e commentatore (per Sky e Gazzetta).
Sosteneva lo storico manager Cino Marchese: “Panatta e Bertolucci hanno pensato troppo alle donne”.
Quando lo portavamo in discoteca non capiva più nulla; comunque il fatto di girare da soli ti porta a rendere conto solo a te stesso, a pagare in prima persona. Ed è complicato trovare gli stimoli per alzarsi alle 8 del mattino e allenarsi.
Non è più così.
Oggi uno come Sinner ha sette o otto stipendi da pagare, è un’industria, e da una parte è più complicato.
Le hanno mai proposto di candidarsi in politica?
No, e non ci penso proprio; anche qui: ho visto ogni forma di democrazia e regime, ho girato dall’Unione Sovietica al Sudamerica; (pausa) la serie Una squadra racconta il Cile, ma ho visto l’Argentina di Videla ed era pure peggio: un clima di paura e controllo incredibili, con posti di blocco a non finire.
E qui siamo ai regimi.
È vero, ma con la politica ho chiuso dopo aver vissuto la follia del dibattito Cile sì, Cile no. Poi quando siamo tornati da vincitori, Giulio Andreotti ha aspettato otto mesi per riceverci. Dico: otto. Una follia.
È superstizioso?
Io no, Panatta moltissimo.
Moltissimo?
(Ride) Prima di un match, Nastase ha pagato un ragazzino per lanciare un gatto nero in campo. Ad Adriano è preso un colpo e ha perso.
Simpatico Nastase…
Allora gli spogliatoi erano comuni e tra di noi non c’erano limiti agli scherzi: ci rubavamo i calzini, mettevamo l’acqua nelle scarpe, nascondevamo le racchette. Poi la sera a cena come amici.
Aveva tic?
Credo nessuno, ma non me lo ricordo.
Panatta?
Si toccava il ciuffo dei capelli.
Anche oggi.
Sì, e le donne ancora ci cascano.
Le donne sono una costante.
(Ride) Una volta l’ho fregato.
Cioè?
Eravamo a Parigi, serata in un ristorante dove c’era anche musica. Al tavolo quattro maschi, compresi noi due, e dieci modelle internazionali. Donne bellissime. Assurde. A metà serata una di loro, un’eritrea, sale prima sulla sedia e poi proprio sulla tavola. Inizia a ballare tra bicchieri e piatti. Noi estasiati. Poi guarda me e Adriano, si piega, viene da me e sussurra: “Questa notte avrò cura di te”.
E lei?
Incredulo guardo Adriano. Che mi dice: “Cazzo, il mondo si è proprio rovesciato”.
Ha dichiarato: “Non essere diventato numero uno è stato un dolore”. Mentre Panatta per se stesso rivendica: è andata bene così.
(Ride) Grazie al cavolo, è arrivato al numero quattro del mondo e ha vinto quello che voleva: Roma, Parigi e la Davis; poi lui è un romano, la sua indole è quella.
Tradotto?
Quando perdeva da uno scarso, la sera stessa gli rodeva, allora si concentrava e la volta successiva lo scarso non aveva chance. Lo massacrava. Poi ci ricascava. (Pausa) Comunque mi sono reso conto presto dei miei pregi e dei difetti e non essere diventato numero uno non è un dolore.
L’hanno mai confusa per il Bertolucci regista?
Sempre, soprattutto quando prenotavo al ristorante: chiamavo, sparavo subito il mio cognome e il tavolo era sempre disponibile. Il problema era il momento dell’arrivo: sistematicamente il ristoratore non celava una certa delusione.
Chi è lei?
Un uomo appagato; (pausa, ci pensa) anzi sono un uomo con una figlia, una nipote e una compagna deliziosa. Quindi sono un uomo felice.