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 2022  luglio 31 Domenica calendario

Intervista a Luca Parmitano

Nei giorni d’estate siamo sempre pronti a perderci dietro a una chimera. A intraprendere viaggi che ci facciano superare confini inattesi.
Era la sera del 28 maggio del 2013 e Luca Parmitano, astronauta dell’Esa, aveva 36 anni. Era arrivato da due settimane al cosmodromo di Bajkonur, nel deserto del Kazakistan. Duemila chilometri da Mosca. Da lì a poche ore sarebbe salito per la prima volta su un’astronave. Aveva ripassato il piano di volo. Svolto le visite mediche. Era andato a correre nel deserto. Quella sera, con lui, c’erano i compagni di viaggio: il comandante russo Fëdor Nikolaevi? Jur?ichin e l’astronauta statunitense Karen Nyberg. Nei momenti di relax, i tre avevano giocato a ping-pong e a biliardo.
C’era anche un campo di badminton, amatissimo dai cosmonauti russi. Poi, dopo la benedizione del prete ortodosso, finalmente era arrivato il momento di prepararsi al decollo.
Parmitano, mentre vi incamminavate verso la Soyuz, ciascuno di voi impugnava una valigetta in metallo. Cosa conteneva?
«Non erano valigette, ma condizionatori portatili per abbassare la temperatura corporea. In quei giorni era molto caldo».
Arrivati ai piedi del missile, sulla scaletta, mentre salutavate, vi apriste in un sorriso tutti e tre.
«Sì, ma i volti sorridenti erano per le famiglie, per gli amici, per gli istruttori. Per chi restava a terra».
Poi siete saliti verso la testa con un piccolo ascensore. Non sembrava modernissimo.
«È proprio così. Quell’ascensore è lo stesso da quando la Soyuz aveva cominciato a volare. Era già vecchio e molto meccanico. Ma funzionò».
Erano le due del mattino. A cosa pensava?
«Avevo nella testa il passo successivo».
Quante pulsazioni al momento del decollo?
«È uno dei pochissimi elementi che riusciamo a monitorare grazie a una piccola fascia. Se non ricordo male intorno a 65 battiti al minuto».
L’interno della Soyuz sembrava minuscolo e voi eravate in tre. È davvero così piccolo?
«È piccolissimo. Ancora più piccolo di quanto sembri. L’astronave non è cambiata negli ultimi quarant’anni. Inizialmente i cosmonauti russi per le operazioni spaziali selezionati erano il più leggeri possibili. Ogni chilo in più è un dispendio di energia».
All’interno pendevano dei peluche. Erano i suoi portafortuna?
«No, del comandante russo. Li portava sempre con sé: il suo piccolo amuleto, un cane, e i peluche per le due figlie. La scusa è che fossero dei segnalatori di micro-gravità».
Il decollo fu il momento di maggiore stress?
«No. È assolutamente automatizzato. La nostra riposta è solo in caso di emergenza. Di fatto è come andare sulle montagne russe, ma più divertente».
Il viaggio verso la Stazione spaziale internazionale è durato circa sei ore. Dopo la lunghissima preparazione e tutte lesimulazioni, cosa la sorprese di quel viaggio?
«Tutto. A cominciare dal fatto che l’astronave era estremamente silenziosa perché i motori erano settanta metri dietro di noi.
Sentivamo solo le vibrazioni. Poi la sensazione esilarante che davano le accelerazioni. Ma anche l’ingresso in orbita. E, poi, la prima alba».
La stazione è un avamposto nello spazio che l’umanità non ha mai costruito prima. Ci può descrivere l’istante dell’avvistamento?
«Prima l’ho vista nello schermo, poi dai lati del finestrino. Mi ha colpito la sua purezza.
Estremamente bianca.
La bellezza spartana.
Meccanica».
Una volta a bordo avete partecipato a molti esperimenti.
Anche come cavie. Tra questi c’era anche uno studio sulla migliore alimentazione per curare l’osteoporosi.
«Sì, abbiamo dimostrato qual è la dieta auspicabile per ridurre la perdita didensità ossea».
Da lassù quali erano gli elementi che le facevano capire che fosse estate?
«Il Mediterraneo visibile in tutta la sua interezza libero di nubi, così come tutta l’Europa continentale, le città della Francia e della Germania. Ma da lì vedevamo anche i grandi ghiacciai del Sud America ricoperti di neve. Uno spettacolo incredibile».
Il 9 luglio arrivò il momento della prima passeggiata nello spazio. Prima di uscire quale fu la sua preoccupazione?
«Avevo timore di non riuscire a essere all’altezza di tutto l’addestramento fatto. Ma allo stesso tempo volevo riuscire a fissare negli occhi ciò che avrei visto».
E una volta fuori?
«Andò tutto bene. Ma, allo stesso tempo, venni sopraffatto da ciò che vidi».
Nella seconda passeggiata, una settimana dopo, lavorava al nuovo modulo per la ricerca extra veicolare. All’improvviso si ritrovò con l’acqua nel casco. Rischiò di morire annegato nello spazio.
Cosa vi diceste in quegli istanti con la base a Houston?
«La presenza dell’acqua era incomprensibile e valutammo tutta una serie di ipotesi per cercare di capirne la provenienza».
Intanto l’acqua aumentava e formava un globo intorno al viso coprendo orecchie, occhi e naso.
Aveva solo la bocca per respirare.
Riuscì comunque a rientrare nella stazione. Quanto durò l’emergenza?
«Tutto il tempo della ripressurizzazione, più quello necessario a togliere il casco.
Almeno una ventina di minuti. Ma durò un’infinità».
Fu un’avaria meccanica. Rientrò a novembre sulla Terra. Nel frattempo la stazione aveva orbitato intorno al nostro pianeta più di 2.500 volte. Quella esperienza come l’ha cambiata?
«Per tantissimi anni ho vissuto per il futuro, per il prossimo obiettivo.
Dopo quell’esperienza ho compreso davvero la bellezza perenne del momento».