Corriere della Sera, 31 luglio 2022
Marilyn Monroe a 60 anni dalla morte
(due articoli)
Paolo Mereghetti per il Corriere
Affascinante attrice di talento, giudicata con sarcasmo Prigioniera dell’immagine di «oca giuliva» del cinema
Forse ha ragione chi sostiene che davanti a Marilyn si può solo tacere, che ogni parola rischia di essere stonata, di sembrare di troppo, perché certi innamoramenti e certe passioni non possono che uscire sminuite se le si affida alle parole.
Come descrivere quello che si prova vedendola sullo schermo mentre suona l’ukulele in A qualcuno piace caldo, mentre cerca un po’ di fresco dalle grate della metropolitana di Quando la moglie è in vacanza oppure in maglione e calzamaglia nera mentre canta My Heart Belongs to Daddy in Facciamo l’amore? E sono solo le prime delle tante immagini che tornano alla mente ripensando alla diva morta sessant’anni fa, il 4 agosto 1962, portandosi dietro il segreto di un fascino che non si poteva spiegare solo con la sua bellezza o con i film che aveva interpretato o con una vita sentimentale che in troppi si sono presi la briga di sporcare.
Se a tanti anni di distanza siamo ancora qui a rimpiangerla (alla Mostra di Venezia toccherà a Ana de Armas farla rivivere, in Blonde), vuol dire che davvero ha saputo dare forma ai sogni non solo della sua generazione ma a quelli di un’epoca tutta, gli anni Cinquanta di Kennedy e di Kruscev, di papa Giovanni e di Castro, di chi cercava il nuovo e di chi voleva dimenticare il passato. Anche a costo di pagare un prezzo troppo alto.
Forse nessuna attrice è stata vivisezionata ed esaminata come lei. E su nessuna si è esercitato il sarcasmo urticante di chi si sentiva in diritto di giudicare e condannare (dimentichiamo chi si è permesso di dire che «dirigere Marilyn è come dirigere Lassie. Ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto» e rubrichiamolo nel cassetto di chi deve per forza fare sfoggio di cinismo). Certo, come tutte e come tutti i primi passi non sono stati subito spediti: è facile ironizzare su Orchidea bionda (1948), il suo primo ruolo da protagonista, dove è la ragazza di un burlesque soffocata dalla madre e insidiata dal proprietario del locale. Ma già due anni dopo, in Eva contro Eva, al braccio di George Sanders, sa lasciare il segno. La sua gavetta fu lunga, costretta a passare attraverso i personaggi (spesso stereotipati) che Hollywood creava per chi pensava più bella che brava. Eppure quando finisce nelle mani di un regista che conosce il mestiere, capisci subito di essere di fronte a una rosa che deve solo sbocciare. Come accade altri due anni dopo in Il magnifico scherzo, dove Howard Hawks (e gli sceneggiatori Ben Hetch, Charles Lederer e I. A. L. Diamond: tre geni assoluti) la trasformano in uno «spaccio di baci a orario continuo», indimenticabile quando mostra i suoi «acetati» (cioè le sue calze di nylon) all’impacciato Cary Grant. Un attore, va ricordato, che non era certo l’ultimo arrivato e a cui Marilyn offriva le batture come una grande professionista.
Fu facile ai tempi ironizzare sulle sue ambizioni artistiche, sulla sua voglia di personaggi diversi dalle «oche giulive» che le imponeva Hollywood. Ma basterebbe scorrere il quaderno di appunti usato durante A qualcuno piace caldo (l’ha pubblicato Taschen) per capire l’impegno che l’attrice metteva nel suo mestiere e la sua voglia di migliorare, di superarsi. Che forse non sempre veniva raccolto dai chi le stava accanto, ma che sapeva arrivare a chi la guardava sullo schermo.
Il suo unico vero sbaglio fu quello di non essersi costruita un personaggio capace di zittire la volgarità che imperava (e non solo allora) nel mondo del cinema, come seppero fare molte sue colleghe più furbe e «corazzate» di lei. Marilyn non nascondeva le sue fragilità in un mondo di pescecani, le sue insicurezze di fronte a chi sembrava non averne. Confessava i suoi desideri e i suoi sogni con la semplicità e l’immediatezza di una bambina, andando ben al di là dei ruoli che il cinema le attribuiva. Per questo commuove ne Gli spostati, perché quella neo-divorziata, che sembra continuamente dover fare i conti con il senso di abbandono (e di morte) che la circonda, ha finito per trasformarsi in un testamento a voce alta, nella disperata dichiarazione d’amore di chi non riesce a trovare un amico a cui confidarsi. Proprio come successe quella notte del 4 agosto, quando tutte le telefonate che fece finirono nel vuoto, lasciandola drammaticamente sola.
B.V. per il CorriereLa notte fra il 4 e il 5 agosto 1962 Marilyn Monroe viene trovata priva di vita nella sua camera: è nuda, distesa sul letto a faccia in giù, ha in mano la cornetta del telefono. Il decesso viene ufficialmente archiviato come «probabile suicidio», causato da un’overdose di barbiturici. Da quel momento, però, la ricostruzione delle sue ultime ore e le tante teorie, anche cospiratorie, sulla sua morte, avvenuta ad appena 36 anni, non hanno smesso di tenere banco, avvolgendo di mistero la scomparsa di una delle dive più affascinanti di sempre. Marilyn, nata Norma Jeane Mortenson, aveva trascorso quel sabato 4 agosto a casa, nella sua villa di Brentwood, a Los Angeles, dove viveva sola con la governante Eunice Murray. Tra telefonate, visite di lavoro, sessione di terapia con il suo psichiatra, si era ritirata presto nella sua stanza. E attorno alle 3.30 di notte la governante, convinta che ci fosse qualcosa di anomalo, si era alzata, trovando la luce accesa sotto la sua porta, chiusa a chiave, e non ottenendo risposta dall’attrice. Negli anni le ipotesi di omicidio hanno tirato in ballo ora la famiglia Kennedy, ora i servizi segreti, ora la criminalità organizzata. Ma nel 1982, quando il caso fu riesaminato, non emerse nessuna prova che portasse a una ricostruzione diversa da quella ufficiale.