La Stampa, 30 luglio 2022
Intervista a Massimo Ciavarro
Recitare, dice Massimo Ciavarro, «mi ha sempre messo un’ansia spaventosa, non mi è mai piaciuto apparire e poi sui set si fa tutto di corsa, forse per questo reagisco diventando chiuso, timido. Quando mi hanno offerto i primi ruoli in due film mi veniva da rispondere “ma che siete impazziti?"». A Lampedusa, nell’arena di Piazza Castello, in pieno centro turistico dell’isola, in una zona che sembra lontana mille miglia dalla tragedia degli sbarchi, Ciavarro presenta ogni sera i film della rassegna Vento del Nord (con il coordinamento artistico di Laura Delli Colli) una platea sotto le stelle, con 500 posti, per lampedusani e non. Un posto dove ricomporre, nel modo a lui più consono, il rapporto con un mondo del cinema in cui, fin dagli inizi, sembra essere cascato per caso: «Non mi sono mai sentito a mio agio, forse solo poche volte, per esempio quando ho recitato per la tv, diretto da Giorgio Capitani. Al cinema si fa tutto di corsa, e poi non mi piacciono quei registi sempre incazzati, quelli convinti di star facendo chissà che».
Insomma, più uno scontro che un incontro. Com’è andata?
«Ero iscritto a Legge, avevo fatto 7- 8 esami, ma avevo capito che non mi piaceva e che non mi andava di continuare, non so nemmeno bene perché. Facevo già da un po’ i fotoromanzi, qualcuno mi consigliò di iscrivermi a una scuola di recitazione, a Roma ce n’era una che si chiamava La Scaletta, le mie compagne di corso erano Moana Pozzi e Margherita Buy. Ci andai per poco, mi arrivò quasi subito, grazie al press agent Enrico Lucherini, l’offerta di recitare nel film Vai alla grande di Salvatore Samperi. In quel periodo uscì il primo Sapore di mare, i Vanzina iniziavano a preparare il numero due e mi chiamarono».
Per le donne certe volte la bellezza può diventare un handicap. È successo anche a lei?
«È una caratteristica che mi ha dato molto, sono grato per questo, se non l’avessi avuta non avrei potuto fare tutto quello che ho fatto. L’unica cosa che mi pesa, oggi, in questi ultimi anni, è la mania delle foto rubate, non dei selfie, che faccio sempre, con tutti, ma dei video e degli scatti fatti a tradimento da persone a cui vorrei dire “guarda che non sei alla zoo”. Ecco quelle cose lì le odio».
Una volta che la carriera era avviata, cosa l’ha spinta a fermarsi?
«Mentre giravo E non se ne vogliono andare, con Virna Lisi, successe che Turi Ferro, anche lui nel film tv, mi chiamasse per propormi il ruolo da protagonista nella versione teatrale del Bell’Antonio. Porca miseria, un’occasione pazzesca, io però ho detto di no, era l’epoca in cui avevo scelto di vivere in campagna, con Eleonora Giorgi, non mi andava di imbarcarmi in quell’avventura. Nello stesso periodo Roger Vadim mi aveva chiesto di recitare in un suo film in Francia, ma gli ho risposto di no, avevo l’orto a cui pensare, l’azienda agricola da seguire».
Prima c’erano stati i fotoromanzi. Li ha abbandonati subito?
«In realtà, prima ancora che nei fotoromanzi, avevo recitato a 18 anni in un film di un genere tipico degli Anni 70 Sorbole… che romagnola, a rivederlo ora fa morire dalle risate, facevo il massaggiatore, in una scena correvo nei campi di grano con la protagonista che a un certo punto si levava la maglietta e rimaneva a tette al vento…Lì pensai che i fotoromanzi fossero molto meglio dei film».
Poi però la loro epoca è finita.
«No no, esistono tuttora, ne ho fatto uno un anno fa, per Grand Hotel, che è ancora molto letto. Mi hanno spiegato che c’era un personaggio non proprio giovane, un archeologo che scopre un tesoro, sono stato contento di tornare in quel mondo, per me è un po’ come una famiglia».
Poi però il teatro l’ha fatto. Come è andata?
«Sì, tre anni fa, e mi è piaciuto tutto moltissimo. Mi ha convinto Massimo Ghini, forse l’unico vero amico che ho in questo ambiente, doveva mettere in scena il testo di Florian Zeller Un’ora di tranquillità, è venuto fino a Lampedusa per dirmi che dovevo assolutamente accettare. Il primo giorno avevo un’ansia tremenda, poi è andato tutto benissimo. È come se finalmente mi fossi sbloccato. Il teatro è diverso dal cinema, mi sono trovato bene, anche nelle tournée, nell’emozione prima di andare in scena, nel fatto che ogni sera puoi essere diverso».
Nel frattempo è diventato padre di Paolo, e ora anche nonno. Suo figlio ha preso subito la strada dello spettacolo, lei come l’ha presa?
«Avrei preferito tutt’altro, anche se so che oggi è tutto talmente fluido, non ci sono più tanti steccati tra i lavori. Paolo è laureato in Economia e Commercio alla Luiss, in inglese, adesso fa tv, social, è il contrario di me, ha una gran disinvoltura, funziona molto, è bravo e, soprattutto, gli piace fare quello che fa».
Impegni imminenti?
«Mi era arrivata una richiesta per partecipare alla seconda serie di A casa tutti bene di Gabriele Muccino, era un buon ruolo, mi sono arrivate le pagine della sceneggiatura, poi avrei dovuto fare il provino, ma ero già molto preso dall’organizzazione della rassegna qui a Lampedusa, ho detto di no».
Vive a Lampedusa quasi tutto l’anno, un’isola difficile. Cosa l’ha spinta a scegliere questo luogo come sua dimora quasi stabile?
«Al centro dell’isola c’è una situazione apocalittica, ma in altre zone non ci si accorge di quello che succede. Stare qui d’inverno è bellissimo e impegnativo. In città, a Roma, ci sto il meno possibile, ci vado per andare a trovare mia madre, per assurdo durante i lockdown non stavo poi così male, non ho l’ansia del vuoto, forse perchè ho vissuto 30 anni in campagna». —