La Stampa, 30 luglio 2022
Intervista a Maurizio De Giovanni che, guarito dall’infarto, deve prendere quindici medicine al giorno
Maurizio De Giovanni deve prendere quindici medicine al giorno. Senza il via libera del cardiologo non può fare nulla. Nemmeno parlare. Sarebbe uno sforzo eccessivo per il suo corpo ancora provato dalla sera del 12 luglio, quando il cuore si è fermato un attimo di troppo. E allora non resta che affidarsi all’epistolario via mail.
Maurizio, le regole del buon giornalismo dicono che non si inizia mai un’intervista con la domanda «come stai?». Ma questa volta dobbiamo fare un’eccezione.
«Uno che ha percorso quelle curve temendo di uscire di strada in maniera definitiva può rispondere a questa domanda in un solo modo, se è a casa tranquillo e tutto sommato in buone condizioni: molto bene, grazie!».
Le parole sono importanti soprattutto per chi come te scrive per passione e professione. Quando devi raccontare cosa ti è successo che termine usi? Hai trovato anche un soprannome?
«Non è ancora il momento dei racconti epici, e spero non lo diventi mai: mi mettono tristezza quelli che, soprattutto a una certa età, appena ottengono un po’ di attenzione cominciano a diramare bollettini medici di cui fondamentalmente non interessa niente a nessuno. Tra me e me uso il soggetto sottinteso: quando è successo, nel momento in cui è accaduto, dopo questa cosa, eccetera».
Torniamo a quella sera. Cosa hai sentito?
«Fisicamente non è stato un gran dolore. Assomigliava di più a un’oppressione, una specie di costrizione nella parte alta dello stomaco. Con un intorpidimento, un dolorino vago tra le scapole. Ero convinto di non aver digerito, insomma, pur non avendo mangiato molto. E c’era questo sudore, un velo freddo. Ma faceva caldo, ho confuso tutto con un malessere di poco conto».
L’ultimo ricordo?
«Mai perso consapevolezza, e mai avuto panico. Ricordo di aver chiamato mio fratello, che era con me, e di avergli detto che era meglio andare in ospedale. Sa che non sono uno che drammatizza le situazioni, nonostante il mestiere che faccio, e si è messo in moto con la sua consueta concretezza. Se devo ringraziare qualcuno, a parte il personale medico, ringrazio lui».
Avvisaglie?
«Nell’ultimo periodo mi sentivo un po’ stanco. Faccio una vita abbastanza frenetica, perché adoro incontrare i miei lettori, e l’ho sempre fatto con leggerezza. Da qualche tempo accusavo un po’ la fatica, soprattutto per gli spostamenti e il gran caldo. Non so se fossero avvisaglie, ma non vedo altri segnali nel recente passato».
Ti sei chiesto quale potrebbe essere stata la a causa?
«Ho sempre creduto che la parola stress fosse una specie di alibi indistinto, dai contorni sfumati, che utilizziamo un po’ a vanvera per giustificare stanchezza o eccessiva reattività, una causa di ogni malessere buona per tutte le stagioni».
Hai cambiato idea?
«Oggi, dopo l’attenta cura del personale medico dell’unità di terapia intensiva cardiologica del Cardarelli (un’eccellenza assoluta, che ho avuto la fortuna di incontrare in questa brutta occasione ma che non abbandonerò più), devo pensare che sia un male colpevolmente sottovalutato. A tirarla troppo, ogni corda si spezza. Per robusta che sia, o che crediamo che sia».
Ora che sei sulla via di guarigione possiamo anche sorriderci un po’ sopra. Sei un noto tifoso sfegatato del Napoli. La vendita di Koulibaly al Chelsea non ti ha aiutato.
«Posso risponderti che quello è un elemento che riguarda il fegato, più che il cuore. Al di là dello scherzo, sono di quei tifosi che dopo un po’ di disappunto ricominciano a tifare con tutte le forze per chi veste la maglia azzurra. Chiunque sia».
Sei un paziente modello che fa prevenzione?
«Sono uno che fa i compiti, lo sono sempre stato. Obbedisco a quello che mi dicono di fare, anche se devo dire che a volte privarsi di alcuni piaceri della vita, come mangiare una pizza condita o bere una birra fredda, è un po’ dura. Ma va bene tutto, se il prezzo da pagare è quello che ho visto coi miei occhi quella brutta sera».
Cosa ti ha salvato?
«L’impressionante lavoro dell’equipe medica che mi ha preso in carico. Dall’infermiera che guardandomi entrare coi miei piedi nel pronto soccorso ha detto a fior di labbra “codice rosso” solo guardando il colorito, alla danza perfetta della sala operatoria, fino all’attenzione e al rigore della successiva degenza. Facciamo viaggi di migliaia di chilometri per cercare un’assistenza all’altezza, e non c’è di meglio di quello che abbiamo in casa. L’ho sempre pensato, ma adesso ho le prove: e per un giallista, le prove contano».
E un po’ di fatalismo napoletano non ce lo mettiamo?
«Certo, se il colpo è forte non ce la fai. Ma certe cose, è bene dirlo chiaramente, se non ti ammazzano ti salvano. E io spero che sia successo così anche a me».
Hai avuto paura di morire?
«Devo essere sincero: no. Ho provato un altro sentimento, una specie di malinconia, il senso di una nostalgia del futuro che non avrei avuto. Mi sentivo come quando ci si addormenta, avendo ancora tante cose da fare».
Come si manifesta la paura di morire?
«Credo con il dolore del distacco. Ma ripeto, non è quello che ho provato in questa circostanza».
Primo pensiero al risveglio?
«Chi sarei stato, da allora in poi. E ho deciso facilmente e subito: la stessa persona di prima. Con qualche cautela, certo, ma senza cambiare nella sostanza».
Che riflessioni ti ha suggerito quello che ti è successo?
«Che forse, qualche volta, bisogna rivedere le priorità; e mettersi un po’ più in alto nella scala dei valori. Ricordando di dire alle persone alle quali si vuole bene che gli si vuole, appunto, bene. È importante manifestare».
Quando si sta male si capiscono meglio i rapporti con le persone. Ad esempio?
«I veri amici. E io sono un uomo molto, molto fortunato, perché ho ricevuto manifestazioni di affetto molto superiori a quelle che immaginavo. Non solo io, ma anche i miei personaggi che hanno corso il mio stesso rischio. E che sono molto meno pronti di me a sparire nel nulla».
Delusioni?
«No, perché? Con tutto questo amore? E con una città intera che non ha mai smesso di accarezzarmi?».
Cambierai vita?
«Cercherò di montare un interruttore, che mi permetta di fermarmi in tempo quando certe situazioni mi agitano troppo. Non sono di natura polemica, ma proverò a non arrabbiarmi così tanto».
A quale tuo personaggio potrebbe succedere quello che è successo a te?
«Maione è un po’ sovrappeso; e Pisanelli ha qualche malanno. Ma sono pellacce dure, riescono sempre a cavarsela».
Ne scriverai?
«Sono convinto che a meno che non sia Hemingway, che ha vissuto cento vite, lo scrittore debba raccontare le vite degli altri. Quindi non credo di scrivere deliberatamente di quest’esperienza. Non posso escludere però che, come tutto quello che mi è accaduto, qualcosa vada a finire nelle mie storie».
Che libro ti è venuta voglia di leggere?
«Voglia di leggere, e basta. Tutto e di tutto».
Adesso hai tanta voglia di?
«Di raccontare di Ricciardi. Mi manca molto, e non ho più voglia di tenerlo in cantina. Voglio vedere cosa gli è successo in tutti questi anni, e come sta».
E non hai più tanta voglia di?
«Di annoiarmi. Ma non ce l’avevo neanche prima».
Riguardati Maurizio, mi raccomando.
«Grazie. E per favore, dì ai miei lettori che gli voglio bene». —