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 2022  luglio 30 Sabato calendario

Intervista a Stefano Mauri

Il mestiere dell’editore visto dalla parte dei numeri è una cosa complicata ma niente affatto arida. È un po’ come l’incipit famoso de L’uomo senza qualità dove, in mezza paginetta, Musil descrive con gli strumenti del barometro che cos’è una bella giornata. Non penseresti mai che lì siamo nel puro calcolo astratto. Piuttosto ci si immerge in quella gioia o paura che la scienza provoca con le sue rappresentazioni e predizioni. Oggi sereno, appunto; domani brutto, magari tempesta. Non è così anche nell’editoria? O in qualsivoglia impresa commerciale?
Ora, provo a immaginare quest’uomo che è a capo della Gems, tra i più grandi gruppi editoriali del Paese.
Preceduto in assoluto solo dal gruppo Mondadori. Lo vedo oggi sessantunenne, più o meno come lo conobbi una decina di anni fa. Non è molto cambiato Stefano Mauri. Ma sono cambiate le condizioni, il paesaggio. E poi un paio di anni fa se ne è andato Luigi Spagnol che nel gruppo Gems condivideva, anche se con ruoli diversi, la responsabilità dell’azienda.
L’uomo dei numeri è rimasto solo. A dire il vero non proprio solo perché c’è Alberto Ottieri e perché la politica del gruppo che raccoglie più o meno una ventina di case editrici è quella di lasciare molta iniziativa alle consociate. Nella costellazione brillano: Longanesi, Garzanti, Bollati Boringhieri, Ponte alle Grazie, Guanda, che quest’anno compie 90 anni e forse è giusto partire da questo evento.
Se penso a Guanda mi viene in mente uno sfizioso catalogo di libri e Luigi Brioschi, la persona che negli anni ha condotto questa impresa. Tuo padre, Luciano Mauri, e Mario Spagnol la rilevarono nel 1987. Tu datrentenne, allora che ruolo avesti?
«Non ne fui testimone diretto, ma posso dirti che si gettarono le basi di quello che sarebbe diventato l’odierno gruppo editoriale. Qualche dote iniziale arrivò dal catalogo Longanesi, quindi Guanda cominciò come casa editrice di repechage. Fu Luigi Brioschi, che tu ricordavi, negli anni ’90 a reinventare la Guanda trasformandola in ciò che è oggi. Brioschi fu da subito messo a capo della casa editrice. A lui, in origine traduttore e poi funzionario alla Rizzoli, si devono le «scoperte» di scrittori irlandesi e inglesi, dell’americano Safran Foer e poi di Sèpulveda e la spagnola Almudena Grandes (sono solo degli esempi). Quanto a me ho svolto il ruolo di amministratore delegato nei gloriosi anni ’90.
Ora rappresento l’azionista di maggioranza».
Più in generale qual è la tua funzione in seno al gruppo Gems?
«Direi che sono l’ammiraglio di una flotta di case editrici. In un gruppo così articolato, nel quale convivono diversi editori è importante creare un clima adatto a sviluppare la creatività, la collaborazione, la contaminazione e allo stesso tempo a perseguire degli obiettivi di equilibrio economico attraverso l’organizzazione, la scelta delle persone, l’aggiornamento delle procedure. Poi per alcune case editrici svolgo il ruolo di editore. Il comandante della nave. Ci sono diverse accezioni della parola editore, ma alla fine quella che più mi convince si lega al fatto di far quadrare i progetti culturali con l’equilibrio economico e finanziario. Capita a volte che sia io per primo a volere acquistare e pubblicare un certo libro, come accadde con Il suggeritore di Carrisi o a immaginare un libro, più di recente con Rula Jebreal, ma il più delle volte le decisioni si basano principalmente sulla valutazione e sulla scelta delledirezioni editoriali. Così è il nostro lavoro. Dobbiamo dare una dimensione reale e concreta a ciò che per sua natura è intangibile e sfuggente».
Quanti sono i marchi acquisiti da Gems e a che tipo di “filosofia” rispondono?
«Sono per ora 20 marchi editoriali. Sei sono stati fondati da noi per rispondere a una esigenza precisa. Il settimo, Orville Press, nascerà l’anno prossimo grazie alla disponibilità di Matteo Codignola, arrivato dopo gli anni trascorsi in Adelphi. Le altre case editrici ci sono state affidate dai loro proprietari, fondatori o eredi dei fondatori, rilanciate e risanate oppure, come in casi più recenti, semplicemente ’federate’ e ancora dirette e partecipate da chi ci ha affidato la maggioranza».
Una figura che ha camminato in parallelo alla tua – eravate nati lo stesso anno – è stata quella di Luigi Spagnol. A lui vengono riconosciuti alcuni indiscussi successi editoriali (primo fra tutti la Rowling). È vero che all’inizio Harry Potter stentava a imporsi?
«Già all’inizio ci credevamo così tanto che abbiamo stampato molte più copie degli stessi inglesi. E metà sono tornate indietro dai librai. La saga è poi esplosa tra il terzo e il quarto volume. Nessuno poteva prevedere una deflagrazione simile. E non è l’unico caso. Luigi ha fatto il grande Slam dell’editoria. Cinque esordi sopra il milione di copie non li ha raggiunti nessun altro in questi anni e in cinque generi diversi».
Provieni da una famiglia di editori: quando tutto ha avuto origine?
«Il bisnonno era impresario teatrale, la nonna era sorella di Valentino Bompiani, assistente di Arnoldo Mondadori fino a quando con la liquidazione fonda la propria casa editrice. Il nonno avvocato,tra gli altri di Pirandello, passa all’editoria, diventando prima amministratore delegato e poi proprietario delle Messaggerie Italiane.
Mio padre gli succede alla fine degli anni ’70 compra una Longanesi in grave crisi e l’affida a Mario Spagnol, che aveva imparato il mestiere proprio da zio Valentino, prima di passare a Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli.
Un’altra figura significativa fu mia zia Silvana Mauri.
Una figura di cui si sa poco. Sposò Ottiero Ottieri e, tra l’altro, fu molto amica di Pasolini. Per scelta si ritagliò un ruolo defilato. Mise il suo gusto e talento al servizio di tanti scrittori. Poi c’era Fabio Mauri, un artista ancora oggi esposto nei musei e gallerie internazionali. Ornella Mauri che dirigeva Alta fedeltà, una rivista musicale; e Achille Mauri, il più creativo della famiglia sempre pronto a sperimentare nuovi linguaggi».
Con una famiglia così alle spalle ti sei sentito più condannato all’editoria o predestinato?
«La storia di ognuno di noi è ricca di esperienze, alcune più importanti di altre. Quanto al predestinato non credo che fosse iscritto nel Dna quello che avrei fatto; è stata soprattutto la realtà esterna a influenzare le mie scelte. Volevo sviluppare una tesi sulla storia demografica di Milano, alla facoltà di Lettere, ma il professore mi chiese una tesi sui consumi culturali in Italia, in particolare librari. Come dirgli di no? E poi l’editoria era un settore attraente. Dopo il militare seguii unMaster of science in publishing negli Usa insieme a mio cugino Alberto Ottieri, che oggi dirige in modo eccellente l’area distributiva e condivide con me la direzione del gruppo. Ti dico questo perché non sono entrato a vele spiegate, ho fatto la mia brava e lunga gavetta».
Eri pur sempre il figlio di Luciano Mauri.
«Non potevo certo cancellarmi, cambiare identità o ripudiare mio padre. La situazione familiare era chiara. Ma ero io che avrei dovuto dimostrare il valore dell’impegno e solo allora sarei stato credibile. Poi, contano le occasioni: le Messaggerie Libri cercavano una persona e Mario Spagnol voleva aprire un ufficiomarketing in Longanesi. Mio padre mi disse: “Della distribuzione in famiglia sappiamo già tutto, dell’editoria no. Vai a scuola da Mario che è il più bravo”».
Che ricordo hai di lui?
«Posso dirti che condivideva con mio padre una visione militarizzata del lavoro. Per il resto vedeva il libro da un’angolatura molto diversa. Mio padre distribuiva centinaia di editori e ricercava in una imponente mole di dati delle costanti. Mario Spagnol andava a caccia di libri che potessero rompere ogni regola, bestseller potenziali, soprattutto stranieri. Aveva tutto per riuscire: fiuto, rigore, velocità, grandissima memoria bibliografica ed esperienza. Sapeva combinare l’attenzione ai dettagli a una forte capacità di sintesi. Da lui ho imparato il lavoro artigianale. Da lui ho appreso che fare una cosa bene costa come farla male. Mai sedersi sulla routine. Ogni libro è una occasione per ripensare i processi. Le procedure evolvono in continuazione, come la realtà. Poi ci ho messo del mio».
Che cosa hai aggiunto?
«Scoprii che avevo un certo talento per la gestione.
Spesso mi venivano affidate case editrici con ingenti debiti. Il mio obiettivo è stato quello di risanarle erilanciarle. Mi hanno aiutato preziosi collaboratori, senza i quali non ce l’avrei fatta. E guarda che non era solo una questione di numeri. Non ho mai licenziato, favorendo il dialogo, la condivisione, ovviamente l’analisi dei dati e la comunicazione, abbattendo spesso gerarchie formali troppo rigide».
Tra i grandi editori chi hai conosciuto e magari cercato di imitare?
«Ho ovviamente conosciuto zio Val ma i suoi insegnamenti li ho avuti di sponda, da Mario Spagnol che lo citava spesso. Anche Giulio Einaudi e Giulio Bollati li vedevo alla Scuola per Librai ma ero molto giovane. Gli Enriques, gli Hoepli, Inge e Carlo Feltrinelli, sempre al nostro fianco con la Scuola per Librai e Gianni Merlini della Utet della quale eravamo soci prima in Tea e poi in Garzanti. Ho conosciuto e ammirato la combattiva Elvira Sellerio e Vito Laterza che mi metteva soggezione ma purtroppo è scomparso poco dopo il mio ingresso nel consiglio d’amministrazione. Ho conosciuto Roberto Calasso, di cui ricorre ora un anno dalla scomparsa. Sapeva essere molto più concreto di quanto si possa pensare. Insomma ne ho conosciuti tanti, ho sempre pensato che ognuno interpreta il mestiere a suo modo, come diceva Valentino Bompiani,e forse questo mi ha favorito nella costruzione di un gruppo così esteso ed eclettico».
Ti preoccupa la flessione delle librerie?
«In questo momento mi preoccupa la flessione delle librerie indipendenti mentre le catene stanno recuperando il terreno perso nell’ultimo biennio.
Un tempo la recensione di un libro poteva muovere le sue vendite. Oggi al recensore puoi dire “descansate niño” perché se non sei un influencer di Tik Tok non vai da nessuna parte.
«Direi che convivono realtà differenti. La recensione di una buona firma può ancora spingere un libro di esordio. Certo è che i social hanno dimostrato a volte di creare dei grandi bestseller, come La canzone di Achille a livello internazionale oIl fabbricante di lacrime a livello per ora nazionale. Ma il più grosso bestseller degli ultimi anni,I leoni di Sicilia,si è fatto strada col tradizionale passaparola tra i lettori».
Della tua vita privata c’è un aspetto che a un certo punto hai voluto rendere pubblico: la nascita di un figlio down. Penso che tu l’abbia fatto perché una società deve imparare a conoscere le disparità e le diseguaglianze e trovare la maniera di ricomporle.
Immagino ci sia voluto molto coraggio.
«Quando è nato mio figlio eravamo del tutto impreparati. Ho superato il senso di impotenza informandomi su qualsiasi cosa si potesse fare per migliorare la situazione, libri, ricerche in rete (internet non c’era ancora) e poi cercando di seguire insieme amia moglie le pratiche che ci sembravano più sensate e compatibili con la nostra vita. Incontrando i massimi specialisti, tra i quali Jerome Lejeune e Reuven Feuerstein, ho avuto l’impressione che i pazienti fossimo noi. Mio figlio neonato respirava, mangiava, dormiva era sereno, addirittura mi accarezzava lui quando eravamo a letto assieme. Era parte di una famiglia con il culto dell’intelligenza. Una famiglia aperta. Liberal. Abbiamo pensato che dentro alla nostra visione del mondo potesse starci comodo anche lui.
Forse la sorpresa è che così la vita è diventata più bella e ricca. Che abbiamo imparato più noi da lui che lui da noi. Che non sa fare i conti ma ha molte intelligenze, superiori di sicuro alle mie: humour, socialità, istinto, saggezza. Che è una delle persone migliori e più amate che conosca».
Hai mai avuto la tentazione di scrivere un libro?
«Mi piacerebbe tramandare quel che ho imparato da mio figlio e magari scrivere un libro sulla mia esperienza di padre. Sarebbe bello se riuscissi a far capire veramente quanto bene lui ci ha donato. Ma non ho ancora trovato la chiave per tradurre in scrittura tutto questo».