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 2022  luglio 30 Sabato calendario

Le femministe che hanno fatto la Storia del Novecento nell’Est Europa

Nella cultura scandinava, le valchirie sono figure mitologiche femminili che hanno un compito decisivo: scegliere quali anime di soldati si salveranno e quali no; il loro nome viene da una parola norrena composta da vain ( guerrieri caduti sul campo) ekjósa ( scelta). Le valchirie, quindi, sono indispensabili non solo per vincere ma anche per affrontare una battaglia. È bene tenere a mente questa etimologia prima di addentrarsi inValchirie rosse. Le rivoluzionarie dell’Est Europa, il saggio che Kristen R. Ghodsee dedica a cinque femministe, ha due obiettivi: uno biografico, raccontare e divulgare le loro vite, e uno posizionale, segnalare la peculiarità del femminismo socialista rispetto a quello capitalista.
Si comincia con Ljudmila Pavli?enko. Charlie Chaplin si inginocchiò a baciarle le mani, Woody Guthrie scrisse una ballata per lei: la prima delle donne narrate, figlia di una professoressa di lingue straniere e di operaio bolscevico che aveva fatto la rivoluzione, era nata nel 1916 e, dopo un matrimonio e una gravidanza precoci, aveva capito presto che la vita familiare non faceva per lei. Divorziò, si fece aiutare dalla madre nell’accudimento del figlio e si appassionò agli studi di antropologia e di storia dell’Unione Sovietica, ma soprattutto al poligono e alle tecniche di tiro. Fece parte di quella percentuale dell’esercito sovietico formata da donne su cui le notizie sono lacunose e insabbiate, che oltre alle minacce di stupro e tortura da parte dei tedeschi dovette affrontare le molestie e il sessismo dei commilitoni: nonostante fosse arrivata ai vertici, Pavli?enko non rinunciava a mostrarsi in pubblico con le unghie smaltate. Fu la cecchina con il più alto numero di esecuzioni nella storia.
Aleksandra Kollontaj, “la sirena proletaria”, fu prima pacifista e socialdemocratica, poi comunista rivoluzionaria, infine anarchica. Anche lei si sposò presto, a ventuno anni, e altrettanto presto capì di non essere tagliata per la vita coniugale; dedicò buona parte della sua militanza al tentativo di liberare le donne da moralismi soffocanti, a partire dalla lettura, per lei illuminante, dei testi di Bebel ed Engels sulla famiglia borghese. Fu una delle prime donne al mondo a ricoprire la carica di ambasciatrice ed è a lei che fu attribuito l’epiteto di valchiria, poi esteso alle altre donne di questo libro.
La pedagogista Nadežda Krupskaja,la bolscevica Inessa Armand,l’amazzone internazionale Elena Lagadinova sono le altre tre figure da cui Ghodsee dice di avere imparato molto, indicandole come interlocutrici necessarie di un femminismo altrimenti monco, che considera solo uno spicchio di cielo, e come stelle polari per l’ondata odierna. Scrive: «Il femminismo lean in e l’attivismo online modello # Girlboss non sono in grado di affrontare le disuguaglianze strutturali che continuano a perpetuare il sessismo, a prescindere dal numero di donne che riescono ad arrivare ai piani alti di un’azienda. Il femminismo liberale, infatti, spesso accentua queste disuguaglianze».
Essere attiviste all’interno di un orizzonte di obiettivi che mettono in discussione l’accettazione passiva dell’inevitabilità della struttura del mercato del lavoro marca un discrimine, così inValchirie rosse. Le rivoluzionarie dell’Est Europa si parla di femminismo della differenza, in opposizione a quello dell’uguaglianza, e di femminismo della relazione, in opposizione a quello individualista. Come ricorda Noemi Ghetti nella prefazione, accanto al femminismo borghese dell’Ottocento, altre istanze più profonde venivano da lontano, già dall’esperienza della Comune di Parigi, ed erano state violentemente represse. «La diffusione del marxismo», scrive Ghetti, «arricchì il femminismo della coscienza di classe e dell’approccio internazionalista, facendo maturare allo stesso tempo nelle donne la consapevolezza che lo sfruttamento femminile all’interno del proletariato era doppio: di genere e di classe».
Quello che oggi chiamiamo femminismo intersezionale nasce qui. Nelle pagine finali del suo saggio, Ghodsee si concentra su cosa possiamo imparare dalle storie di queste donne e, più in generale, dai femminismi non occidentali o dalle voci femministe dissidenti e critiche, come Angela Davis che, non a caso, incontrò Elena Lagadinova. Il primo lascito è: la cura. «Coltivare le relazioni è un’attività rivoluzionaria», scrive l’autrice, «nessuno, nemmeno un rivoluzionario celebrato come Vladimir Lenin, può cambiare il mondo da solo. L’atomizzazione della società in singoli nodi individualistici ( non importa quanto illuminati) perpetua l’ingiustizia». Ne conseguono umiltà e autoapprendimento come capacità di posizionarsi in una rete più ampia e di non aspettare l’indottrinamento per agire. Tenacia, attitudini, impegno: parole desuete che queste pagine riesumano e, in un certo senso, risemantizzano.