Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 30 Sabato calendario

Autobiografia di Harriet Ann Jacobs

Il racconto crudo e dettagliato di  La sua vita senza libertà in Carolina del Nord C’era una volta la schiavitù, forse c’è ancora. Pubblicato per la prima volta a Boston nel 1861 con il titolo Incidents in the life of a slave girl, written by herself, il racconto di Harriet Ann Jacobs della sua vita da schiava della Carolina del Nord torna in libreria grazie a Mattioli 1885, con l’introduzione e la traduzione di Livio Crescenzi e Ursula Mottola. È spesso merito dei cosiddetti “piccoli editori” quello di proporci libri speciali, capaci di farci perlustrare territori in apparenza periferici del nostro campo visivo e di orientarci lo sguardo verso direzioni poco battute dal mainstream. Voi donne e uomini liberi
è un libro molto particolare perché narra la storia vera della sua autrice, sotto lo pseudonimo di Linda Brent, in un’America in cui la schiavitù è una realtà socialmente accettata e giuridicamente regolamentata. Attraverso le pagine di questa autobiografia dell’ingiustizia abbiamo la possibilità, noi donne e uomini liberi del secolo XXI, di fare esperienza della schiavitù, di muoverci all’interno del suo claustrofobico perimetro. Quello di Harriet Jacobs è uno dei tanti racconti stampati all’epoca per promuovere la causa abolizionista eppure si distinse, già al momento della sua prima pubblicazione, per aver fornito una rara testimonianza dell’esperienza della schiavitù dal punto di vista femminile. L’autrice non parla genericamente della vita degli schiavi ma di quella delle schiave, che nella scala gerarchica dello sfruttamento e della segregazione, hanno occupato sempre un gradino più in basso fin dall’antichità, al tempo in cui Briseide e Criseide erano oggetto di baratto e ire funeste nel campo degli achei.
Ci indigna leggere in queste pagine che nell’America sull’orlo della guerra di secessione gli schiavi venivano acquistati e venduti come merce di qualsiasi altro genere. Ci sconcerta apprendere dalla testimonianza di Jacobs che una donna in schiavitù doveva mettere da parte del denaro per comprare i propri figli e impedire che fossero acquistati da un padrone. Nel linguaggio comune è normale dire “mio figlio”, “mia figlia”. Per le donne e gli uomini di colore dell’America razzista non lo era. I figli degli schiavi erano merce alienabile al pari della madre, di cui seguivano il destino.
La storia di Harriet – che nella finzione si chiama Linda – segue alcuni degli stereotipi narrativi del romanzo ottocentesco: la giovane dall’animo candido, rimastaprecocemente orfana, è a lungo perseguitata dal suo aguzzino, in questo caso il terribile dottor Flint, il padrone che vorrebbe abusare di lei ma non riesce a rompere le sue resistenze perché Linda ricorre a mille stratagemmi, astuzie e sacrifici pur di non cedere, pur di tornare libera e liberarei suoi figli. Ma quello che colpisce di più in questa storia, oltre alla genuinità della scrittura e la vividezza dei particolari, è l’attitudine della narratrice a rompere di tanto in tanto la “quarta parete” del racconto per rivolgersi direttamente al lettore, anzi alle lettrici, quasi a cercare conforto, rifugio, solidarietà. Harriet Jacobs, insomma, ci chiama sul banco dei testimoni, come persone informate sui fatti. «Voi, donne felici, la cui purezza è stata protetta fin dall’infanzia, voi che siete state libere di scegliere gli oggetti del vostro affetto, le cui case sono protette dalla legge, non giudicate troppo severamente la povera schiava triste e sola! E, soprattutto, non guardate alla mia condizione con indifferenza, perché non sapere è umano ma vedere e voltare lo sguardo altrove è diabolico».
Così come è diabolico fingere di ignorare che ancora oggi nel nostro Paese esistono donne, per lo più nigeriane, che arrivano con la promessa di un’occupazione e si trovano invischiate in forme di schiavitù non molto differenti da quelle descritte da Harriet Jacobs. Donne private dei documenti e del loro nome, costrette alla prostituzione per ripagare un debito che non risarciranno mai. Donne picchiate e allontanate dai figli o costrette ad abortire illegalmente, donne della cui morte non saprà mai nessuno perché sono peggio che schiave, sono fantasmi.
Da questo punto di vista, la storia di Harriet- Linda mi porta alla mente altri due libri che raccontano la piaga della prostituzione a Castel Volturno, in provincia di Caserta, una schiavitù contemporanea: quello di Sabrina Efionay,Addio, a domani, edito da Einaudi stile libero, e quello di Marta Correggia, Il mio nome è Aoise, offertoci da un altro piccolo editore coraggioso, Vanda edizioni.
Le storie di schiavitù di ieri e di oggi sono contigue, ripropongono in termini incredibilmente simili le stesse dinamiche di marginalità, sopraffazione, invisibilità e non bisogna smettere di contrastarle con fermezza, poiché, come ci ricorda la protagonista in una delle pagine più intense del racconto: «Il padrone aveva dalla sua parte il potere e la legge; io avevo una volontà determinata. Ognuno ha la sua forza».