Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 30 Sabato calendario

L’arte di divulgare la letteratura

È un gesto che ha a che fare con la democrazia Perché la lettura, attraverso il dialogo con l’autore, permette di riconoscere la compresenza di verità differenti nella pluralità delle coscienze
L’inchiesta di Sara Scarafia è, come Giano, bifronte. Da una parte rivela una confortante vitalità di iniziative; dall’altra conferma che i cambiamenti portati dalla civiltà elettronica sono, anche nel campo della lettura, rivoluzionari. L’inchiesta descrive un modo di usufruire dei libri molto diverso da quello che s’era affermato negli ultimi secoli – la lettura come attività silenziosa e solitaria. Do subito qualche famoso esempio per illuminare il concetto. Il primo è del 1513, Niccolò Machiavelli scrive al suo amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino alla corte di Leone X, tra l’altro gli racconta come passa le serate nel suo esilio in Val di Pesa: «Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte». Solitudine, austero silenzio, totale concentrazione sul testo, questo ci dice la lettera. Vado più indietro, Francesco Petrarca, XIV secolo, le modalità di lettura che Machiavelli descrive, il poeta le chiede, anzi perentoriamente le esige, dal suo lettore. In una delle sue epistole familiari scrive: «Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi solo a me e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra o ai soldi, e almeno mentre legge voglio che sia solo con me». Spiega anche perché pretende questo atteggiamento, potremmo definirlo l’orgogliosa richiesta di un professionista: «Io non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto».
Da quegli anni remoti, vengo all’inizio del XX secolo. Marcel Proust, parlando della sua giovinezza, confessa: «Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuto intensamente quanto quelli che crediamo di aver perduto senza viverli, i giorni trascorsi in compagnia di un libro molto caro». Arrivo infine ai nostri anni. Dal romanzo di Paul Auster Follie di Brooklyntolgo questa frase: «Leggere per me era evasione e conforto, era la mia consolazione, il mio stimolante preferito: leggere per il puro gusto della lettura, per il meraviglioso silenzio che ti circonda quando ascolti le parole di un autore riverberate dentro la tua testa».
Solitudine è una condizione che in genere viene associata a pensieri malinconici, la solitudine derelitta di persone che la sorte ha privato della socialità, una delle fondamentali componenti umane. Esiste però anche un altro possibile significato. È esattamente quello che si può applicare all’essere umano che legge, solo, in un ambiente in penombra, in un muto colloquio tra il sé che legge e il sé dell’autore che gli parla attraverso le sue pagine. Il filologo Ezio Raimondi nel suo saggio Un’etica del lettore ha scritto proprio questo e cioè che la lettura è «un incontro tra due solitudini» educa, tra l’altro «a riconoscere la compresenza di verità differenti nella pluralità delle coscienze», il che, volendo tirare un po’ più in là il discorso, richiama uno dei principi base della democrazia – non vorrei però esagerare. Ho fatto alcuni esempi presi qua e là nel corso del tempo. Ma è anche vero che definendo il metodo descritto da Sara Scarafia una novità, ho detto una cosa solo in parte vera. Anche mettendo da parte la lettura o la ripetizione collettiva di parole e frasi di tipo religioso (monasteri, sinagoghe) leggere ad alta voce o sillabando le parole era comune nel Medioevo. Agostino d’Ippona, cioè sant’Agostino, rivela con sorpresa nelle Confessioni il modo in cui leggeva il “dottore della Chiesa” Ambrogio da Milano: «Quando leggeva i suoi occhi esploravano la pagina e il suo cuore coglieva il significato, ma la sua voce taceva e la sua lingua era ferma». Se Agostino si stupisce vuol dire che il metodo più usato era opposto e cioè leggere ad alta o quanto meno a mezza voce.
La mia opinione in ogni caso è che in silenzio o a voce alta, da soli o in compagnia, più si legge meglio è. La ragione è semplice: leggere è atto colto per eccellenza, cioè innaturale. Naturale è guardare. Se vedo un cane che abbaia vedo un cane che abbaia; se leggo «il cane abbaia» devo ricostruire nella mente l’azione che i caratteri convenzionali che chiamiamo scrittura simboleggiano. La divulgazione dei libri, comunque avvenga, è un’azione benemerita e qui sì possiamo legittimamente tirare in ballo anche la democrazia.