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 2022  luglio 30 Sabato calendario

Régis Jauffret, tra Céline e Tati

«Lasciai la mia famiglia a diciotto anni per andare da una ragazza che abitava in una città insignificante. Lavorava in un negozio di mobili. Passavo tutta la giornata ad aspettarla, sdraiato, guardando la televisione, e mi divertivo a pescare nell’elenco del telefono nomi di donne che non conoscevo e a chiamarle solo per sentire la loro voce». Così comincia Autobiografia di Régis Jauffret, pubblicato in Francia nel 2000 e oggi in italiano da Edizioni Clichy insieme ai diciassette racconti di Giochi di spiaggia (le traduzioni sono rispettivamente di Tommaso Gurrieri, e di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio), una raccolta che ci mette a confronto con lo sguardo dell’autore di quei magnifici mostri letterari che sono i due volumi di Microfictions. Un incipit, quello di Jauffret, nel quale è subito riconoscibile la voce un po’ blasé e un po’ déraciné di un impeccabile buono a nulla che dall’inizio alla fine del romanzo vive di espedienti, patisce, poltrisce, fa il ruffiano, è manipolatore ed è manipolato, sempre alle prese con uno stato d’animo – l’ennui: da intendere, in questo caso, come la contemplazione dell’insignificante – che in lui non è una specifica circostanza o un’anomalia ma l’unico modo di stare al mondo.
Autobiografia è dunque il racconto che fa di sé questa voce diciottenne – ma, via via che ci si inoltra nel romanzo, sempre più arcaica —, un susseguirsi di fatterelli che sono fattacci, un album di tutto ciò che in teoria è ignobile e turpe ma che nella scrittura di Jauffret esiste in una forma premorale; Autobiografia è però soprattutto il racconto di una particolarissima sensibilità: un modo di percepire l’umano simultaneamente terribile e comico, come se di colpo l’amarissimo iconoclasta Bardamu del Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline si imbattesse nel Monsieur Hulot di Jacques Tati generando un personaggio-chimera nel quale il disincanto più cupo si mescola a un limpidissimo candore.
Una pagina dopo l’altra – senza che la narrazione conosca rallentamenti o pause, procedendo semmai con un passo da marcetta atrabiliare, e all’interno di uno spazio e di un tempo che rimarranno sempre indefiniti —, al vecchio ragazzo nient’altro accade se non il lasciare: la famiglia, una donna e poi un’altra e un’altra ancora e ancora: l’unica esperienza possibile è abbandonare, o meglio abbandonarsi, non nel senso di lasciarsi andare ma in quello di staccarsi da sé.
Per Jauffret, raccontare è un esercizio spirituale che non ha per fine l’ascesi bensì la destrutturazione di quella cosa che chiamiamo io: un costrutto ingombrante, pretenzioso e ambiguo che la letteratura prova a sabotare dall’interno, ridimensionandolo, prendendolo in giro, inducendolo a dimenticarsi, addirittura a farsi cosa – la voce narrante valuterà a un certo punto di far incorporare le proprie spoglie «in una lastra destinata a servire da spianata o da area giochi», così come di diventare la coda di un cane, il suo pelo, la materia fecale; a quel punto, quando la vita psichica verrà a coincidere con nient’altro che «un merletto di memoria», potrà avvenire il definitivo smaltimento (tutta l’opera di Jauffret sembra manifestarsi a partire da quel bisogno di espulsione della psicologia dal discorso letterario che Franz Kafka condensa in un appunto dei Quaderni in ottavo: «Per l’ultima volta, psicologia!»).
Tra le strategie dissipative alle quali la voce narrante ricorre, insieme al lasciare e al reificarsi, ci sono le donne: un accumulo parossistico di corpi, giovani, sfioriti, laconici, loquaci, esigenti o indifferenti: un macropersonaggio muliebre utile ad assicurarsi – solo e sempre attraverso il do ut des del sesso – un minimo di sussistenza: spiccioli, un domicilio sgangherato, qualche pasto.
Nei confronti di questo coro di personaggi femminili non c’è nessun compiaciuto dongiovannismo – le «imprese», seppure «donnesche», sono soprattutto grottesche – e non c’è amore, non c’è ironia – non c’è l’Arthur Rimbaud che nei suoi versi esclama beffardo: «Oh mie innamoratine, quanto vi odio! Coprite di stracci contriti le vostre laide tettine!» —, ma non sarebbe esatto pensare che ci siano allora crudeltà e cinismo.
Nella voce narrante di Jauffret, l’assenza di qualsiasi desiderio non è la conseguenza di un conflitto o di una delusione, e si accompagna a una sostanziale incapacità di essere epicamente infelice. L’unico dato di fatto – l’unico ordine del giorno – è avanzare, avanzare e basta, senza origine, senza meta, senza memoria e senza destino, a ogni passo affermando la radicale assenza di epos della vita umana. Esserci, stare al mondo, è solo un perpetuarsi della materia in un tempo irreparabilmente pietrificato. Sebbene il sesso ci sia sempre – in questo come in ogni altro libro dell’autore francese – e si faccia sempre più folle e inconsulto – «La settimana dopo ebbi rapporti sessuali con la maggior parte dei mobili, e anche con le finestre» —, in Jauffret l’eros è parte dell’insignificante, è un tiranno senza regno che non si lega mai all’esultanza del corpo e vale soltanto come l’occasione per il manifestarsi del comico, o meglio del tragicomico.
Perché questo è quel che accade. Davanti ad Autobiografia, così come a Giochi di spiaggia – diciassette tenebrose avventure di uomini e donne non illustri, dove ognuno non è altro che «una fiaba sconclusionata» —, la lettura all’inizio è a disagio, disorientata dalla perentorietà del dettato, ma dopo poco il disagio si trasforma in stupore e in euforia, e d’un tratto ci rendiamo conto che stiamo sorridendo: al cospetto di una scrittura nella quale l’umano è sempre ingenuo e feroce, acutissimo e ottuso, rintanato nel tempo come un clandestino ignaro di essere tale – in Jauffret l’umano viaggia nel fondo di una stiva, ma non sa che cosa sia una nave —, ci sorprendiamo, proprio in quanto esseri umani, a sorridere e addirittura a ridere della nostra viscerale costitutiva infondatezza.