La Lettura, 30 luglio 2022
Intervista a Caetano Veloso
Ha rivoluzionato la musica, con il movimento del Tropicalismo (insieme all’amico e collega Gilberto Gil) ha inciso nel cuore della società brasiliana, con il suo corpo ha pagato e sofferto il carcere e l’esilio. A ottant’anni – li compirà il 7 agosto – la battaglia di Caetano Veloso, molto più di un cantautore e molto più di un chitarrista, continua. Per l’ambiente e l’Amazzonia, polmone dissanguato del Brasile e del mondo; per abbattere le diseguaglianze che lacerano la sua terra; per dare un altro futuro a un Paese chiamato il 2 ottobre a un voto presidenziale decisivo su Bolsonaro e sul ritorno di Lula.
Nell’intimità della sua casa, dove lo raggiunge «la Lettura», Caetano Veloso abbraccia il suo essere nonno con gioia e stupore. Si interroga sulla vecchiaia, che non vive come una catastrofe, perché la vecchiaia è soltanto un’altra opportunità per esplorare nuovi livelli di esistenza e di conoscenza.
Dal punto di vista musicale continua a essere l’uomo curioso che è sempre stato, costante punto di riferimento di giovani cantanti brasiliani con cui intreccia alleanze e note musicali. Rimane un sognatore, ma anche un attento osservatore di quello che succede nel suo Brasile e nel mondo.
Caetano Veloso, lei ha cominciato a cantare da bambino le canzoni che sua madre Dona Canô ascoltava alla radio – samba, vecchi bolero... Da allora la sua voce ha vissuto mille vite. Com’è la sua relazione con la sua voce oggi che sta per compiere ottant’anni?
«Mi è sempre piaciuto cantare e mi piace ancora. Sento come cambia (fisicamente ma non solo) con l’età. Ma cantare è ancora un piacere per me. All’età di 80 anni mia madre cantava ancora molto bene, aveva una voce dolce e ferma. Ho un vantaggio genetico. Osservo i limiti che derivano dalla vecchiaia, ma riconosco ancora l’essenza della mia voce quando canto».
C’è una frase che viene attribuita ad Anna Magnani, l’attrice romana, sull’invecchiare: «Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!». Anche per lei è così? Invecchiare è un viaggio?
«Ho sempre amato questa frase della Magnani. Mi osservo invecchiare con la curiosità di un bambino. Non voglio nascondere le rughe, i capelli bianchi, i cedimenti che ho nella voce... Diventare vecchio è una circostanza felice. Se fossi morto a 24 anni o a 35 anni o chissà, non avrei potuto provare quello che provo. Quindi sì, è un viaggio. Non dico che sia una situazione del tutto privilegiata, ma vale sempre la pena conoscere nuove situazioni».
Uno dei suoi tour più amati è stato «Ofertório», realizzato con i suoi tre figli Moreno, Tom e Zeca. Un’esperienza che avete poi ripetuto regalando ai brasiliani un concerto che la gente chiusa in casa in piena pandemia ha potuto seguire. Avete regalato un attimo di felicità in una stagione di grande dolore. La pandemia com’è stata per lei?
«Difficile, come per tutti. Ma tra il 2019 e il 2020, dopo l’estate tropicale, come facciamo sempre, siamo andati a stare qualche settimana in una casa che mia moglie Paulinha aveva dato, insieme al padre, alla madre, ma che quest’ultima non usava più perché troppo isolata. Per qualche tempo era stata affittata alla gente di Rio. È una casa su tre piani, con un giardino rigoglioso e la vista sul mare. L’appartamento in cui vivevamo a Ipanema era in ristrutturazione. È stato molto più bello trascorrere la quarantena qui rispetto a un appartamento. Sono stato fortunato. E sono stato fortunato anche perché il mio figlio più giovane, Tom, ha avuto un bambino: lui, la sua compagna e il piccolo sono venuti qui con noi».
Che idea s’è fatto della gestione della pandemia in Brasile?
«Il governo brasiliano ha agito nel modo peggiore che si possa immaginare: il presidente Bolsonaro ha persistito in un negazionismo sfacciato e il bilancio delle vittime è stato, finora, di quasi 700 mila morti. Abbiamo perso amici e colleghi, a volte eravamo sopraffatti dall’angoscia. Aggiungiamoci i misteri che hanno circondato l’emergere della malattia e le numerose teorie del complotto che ne sono seguite. Abbiamo attraversato questi due anni tra la gioia di vedere il mio terzo nipote (il primo di Paulinha) affacciarsi alla vita, guardare il mare, il frutteto, i filari dell’orto e la paura per la nostra vita e quella di tutta la nostra gente, vicina o sconosciuta. La madre di Paulinha era una psicoanalista e una parte della casa, al piano di sotto, vicino alle piante, che era stata usata da lei come studio medico e ufficio, è stata trasformata da Paulinha in un piccolo studio di registrazione. Ho chiamato uno dei compagni di band di mio figlio, un giovane musicista molto talentuoso e competente (che conosce anche le apparecchiature di registrazione), per registrare le nuove cose che ho composto nel frattempo. È nato così Meu Coco, un album con canzoni che avevo iniziato a comporre a Bahia. E il live che ho fatto con i miei figli, ispirato a Ofertório, è stata una benedizione per tutti noi».
I genitori insegnano ai figli, e questo si sa. Ma i figli che cosa insegnano a un genitore? I suoi figli, musicalmente e umanamente, soprattutto dopo il tour insieme, che cosa le hanno insegnato?
«Anche i genitori imparano molto dai propri figli. Io dico sempre che la nascita di Moreno, il mio primo figlio, nato dalla mia prima moglie Dedé, è stato l’evento più importante della mia vita adulta. Con lui ho imparato ad amare i bambini – e ho avuto la rivelazione di quell’amore incondizionato che vedo ripetersi soltanto con Zeca e Tom, i due figli che abbiamo avuto con Paulinha. Tutti e tre mi insegnano tanto. Non solo cose fondamentali come l’amore assoluto ma anche, a mano a mano che crescono e maturano, molte cose pratiche e teoriche».
Lei e i suoi amici, Gilberto Gil, sua sorella Maria Bethânia Veloso, Gal Costa, Chico Buarque e tante e tanti altri, siete una colonna portante della musica brasiliana. Ma siete anche molto amici. Ascoltando la sua musica si ha la sensazione che l’amicizia sia un elemento segreto di ogni canzone scritta da lei o da scrivere ancora. È così?
«Appena mi sono affacciato alla vita di musicista professionista (quando Bethânia, che ha quattro anni meno di me, è stata invitata, a 17 anni, a sostituire Nara Leão in un piccolo musical intitolato Opinião) ho subito amato l’atmosfera di amicizia tipica tra i compositori e i cantanti della fase che ha immediatamente seguito la bossa nova. Ancora oggi provo amicizia nei confronti di Chico, di Milton, di Jorge Ben, di tanti altri. E di altri più giovani che sono venuti dopo: Djavan e Marisa Monte e i rocker degli anni Ottanta. Nella mia generazione, anche con figure come Dori Caymmi, che si oppose fermamente a ciò che Gil e io proponevamo con il Tropicalismo, siamo rimasti buoni amici. Resiste un’atmosfera di reciproca ammirazione che è notevole. E sì, l’amicizia, come sostrato generale, a prescindere dal fatto di essere colleghi, è qualcosa di molto importante per il clima poetico in cui mi muovo. Nel samba-rap Língua, che ho composto e registrato nel 1982, c’è questo brano: “E so che la poesia sta alla prosa come l’amore sta all’amicizia: e chi può negare che questa gli sia superiore?”. Mi piace Proust, per cui solo l’amore conta e che non considera per niente l’amicizia, ma su questo argomento la penso più come Nietzsche. O forse, provocatoriamente – in una canzone provocatoria fin nella definizione: samba-rap – volevo mettere un po’ in crisi la lotta tra amore e amicizia».
Lei è molto curioso della musica degli altri. Le sue cover d’autore hanno sempre permesso ai suoi estimatori di conoscere cantanti e sonorità nuove. Oggi che cosa la incuriosisce nel panorama brasiliano e mondiale?
«Ho sempre amato le canzoni. Prima le canzoni brasiliane, poi i tanghi argentini, i boleri cubani e messicani, le canzoni americane, tutto. Ma già durante il Tropicalismo, nel 1967 e nel 1968, mi interessava il modo ingenuo con cui i giovani musicisti brasiliani si lasciavano attrarre dalla musica americana piuttosto che dalla propria. Tanto che oggi conosco molte più canzoni di Cole Porter e Irving Berlin, di Gershwin e Rogers & Hart che dei Beatles o degli Stones. Dopo il mio arresto ed esilio, sono tornato in Brasile e non potevo sopportare più di sentire musica inglese o americana all’autoradio. Ancora oggi, c’è in me un’attenzione spontanea verso tutto ciò che accade nel Brasile musicale rispetto ai successi internazionali. Non perdo di vista il quadro generale, ma non mi piace ascoltare passivamente. Nel mio album Meu Coco nomino molti nuovi cantanti brasiliani di vari generi. Tra i miei grandi successi ci sono canzoni non scritte da me ma di cui ho inciso una cover e che sono rimaste segnate dalla mia voce. Penso che sia perché provo molto più piacere nel cantare che nel comporre».
Se non avesse fatto il cantautore che cosa avrebbe fatto?
«Cinema».
Due anni fa è stato presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia il documentario «Narciso in vacanza» sulla sua prigionia durante la dittatura militare, quella che poi la portò all’esilio in Europa, a diventare rifugiato, a mostrare tutta la sua fragilità e la sua resilienza. Com’è stato mettersi a nudo? Soprattutto su un tema così doloroso e drammatico come questo?
«Due registi stavano per girare un documentario basato sul capitolo “Narciso in ferie” tratto dal mio libro Verità Tropicale. Musica e rivoluzione nel mio Brasile (pubblicato in Italia da Sur, ndr). In primo luogo, hanno girato un’intervista con me; poi, partendo da lì, hanno intervistato Gil (che è stato arrestato insieme a me), altre persone coinvolte, i miei familiari; hanno visitato le caserme... Ma quando hanno rivisto il materiale della mia intervista, hanno deciso di basare il film solo su quello. Mi hanno mostrato, senza preavviso, documenti di cui non ero neppure a conoscenza. E sono rimasto colpito. A volte indignato, a volte commosso. Il film è stato girato prima che il candidato di estrema destra fosse eletto presidente (Jair Bolsonaro si è insediato il 1° gennaio 2019, ndr). È un uomo che ripetutamente, per decenni, come deputato, ha elogiato il periodo della dittatura militare, i torturatori, e oggi sta smantellando l’assetto democratico. Tutto è stato filmato prima di immaginare che un personaggio del genere potesse salire al potere».
Che cosa si augura per il futuro del suo Paese alla vigilia delle elezioni?
«Vorrei che si vedesse finalmente una luce. Il candidato per cui voterò è Ciro Gomes, un politico esperto e intelligente che ha un piano a lungo termine per il Brasile (avvocato e docente universitario, Gomes è vicepresidente del Partido Democrático Trabalhista, laburista, membro dell’Internazionale socialista, ndr). La polarizzazione tra Lula e Bolsonaro sembra insormontabile. Comprendo e partecipo dell’amore che gran parte della popolazione ha per Lula. La sua storia, la creazione del Partido dos Trabalhadores, la sua ascesa al Palazzo del Planalto, i suoi due mandati che hanno dato forza alla gente e ai territori a basso reddito... tutto questo merita tanto amore. Ma vorrei un Brasile più maturo rispetto a questo pendolo che non smette di ondeggiare tra l’estrema destra, che si è imposta in seguito a un’ondata globale di destra, e una sinistra il cui leader è stato recentemente in carcere (per un’azione congiunta di pubblici ministeri e di un giudice diventato poi ministro del presidente di destra eletto proprio sulla scia di questo processo sospetto), in un’America Latina dove queste rapide oscillazioni rischiano di fare gli interessi dell’imperialismo. Sogno un Brasile di nuovo in crescita, ma senza le diseguaglianze scandalose del “miracolo economico” del ministro Delfim Netto, che faceva il bello e il cattivo tempo durante il periodo dittatoriale, un Brasile che entri in un’onda lunga di affermazione nazionale che apra a un’influenza brasiliana nel mondo, una nuova luce che allevi i dolori dell’umanità nei suoi terrificanti squilibri. Il Brasile ci ha fatto vedere cose orrende, ma non possiamo dimenticare che è stato anche culla di tanta bellezza. Si tratta solo di fare il tifo per Lula, nel caso diventasse sempre più chiaro che Gomes non ha possibilità. Ma anche sperare che Lula, una volta eletto, porti nel governo molti contenuti del programma di Gomes. O qualcosa che sorprenda e realizzi più di quanto lo stesso Gomes abbia in programma. Si sa quanto sarà difficile per Lula o Gomes tirare fuori il Brasile dall’orrore di un mondo devastato dalla pandemia, dalla guerra russa contro l’Ucraina, da una situazione economica terribile. Dal terrore per l’ambiente alla messa in discussione della scienza, tutto punta a cambiamenti profondi, che dureranno nel tempo. Sogno di liberare il Brasile dalle catene coloniali, dalle menzogne del neoliberismo, dalla mediocrità».
E il suo futuro? Quali sono i suoi progetti?
«Compio ottant’anni domenica prossima. Ho in programma uno show in tv con i miei figli e mia sorella, per celebrare ciò che c’è da festeggiare e continuare a guardare le cose con attenzione, per vedere come andranno».
(si ringraziano per la collaborazione nella traduzione dal portoghese Daniele Petruccioli e Giorgio de Marchis)