Corriere della Sera, 30 luglio 2022
L’apocalisse climatica profetizzata da Kipling l’imperialista
I cambiamenti storici e politici sono anche un trasloco di immagini, simboli, miti, nomi di strade e di maestri dell’arte e della letteratura, che vengono talora quasi raschiati via. Non è strano, anche se è ingiusto, che ciò accada anche a Kipling. Ovviamente si vuole mettere in soffitta lo scrittore ridotto a bardo dell’Impero britannico, celebratore del fardello dell’uomo bianco, anche se quel fardello, come scrive ripetutamente l’autore stesso, non è una sfilata d’onore davanti alla Regina ma un lavoro da spazzini e da facchini e la gloria imperiale è uno spegnersi dei fuochi, destinati all’oblio come quelli antichi di Ninive e Tiro.
Imperialista nella sua concezione della Storia prima ancora che della politica, Kipling ha scritto, con quella contraddizione che rivela spesso il grande autore, splendide e partecipi storie d’amore fra persone di stirpi e culture diverse, che trascendono ogni prospettiva coloniale. Secondo Borges, ad esempio, i suoi ultimi racconti sono più labirintici, angosciosi e poetici di quelli di Kafka.
In questi giorni di narcosi e apocalissi climatiche, il cui torrido è divenuto un’opacità di vivere, ho riletto un racconto di Kipling, «Come venne la paura», compreso nel Secondo Libro della giungla. Una specie di leggenda in cui una terribile ondata di caldo, con tutte le sue implicazioni nel mondo vegetale e animale, altera l’intera giungla, il sistema e le leggi che la regolano, i rapporti fra tutti i suoi esseri viventi e non solo viventi. Il caldo è un odore; il sudore un’atmosfera, uno sporco che lascia i suoi segni neri sul dorso della tigre. L’atmosfera generale di questi giorni ha dato il senso di un’alterazione del mondo, ancora latente ma solo rinviata. Il sole – aveva scritto Kipling parlando di Chil, avvoltoio ingrassato di carogne – uccideva la Giungla.
Ma non è l’avvoltoio l’animale distruttore. Il divoratore di morte, il parassita del male, è Shere Khan, la tigre dal dorso striato dalla sua stessa colpa sanguinosa, che introduce nella Giungla – nel mondo, nella vita, nella Storia – il male e la morte anche morale. È il sangue versato dalla Tigre che intorbida e avvelena l’acqua forse per sempre, trasformando fresche e dolci acque in bolle ardenti di un inferno – nonostante i tanti saggi e coraggiosi Maestri della Giungla, dal capobranco Akela all’orso Baloo, da Bagheera la pantera nera a Hathi l’elefante a Kaa il pitone.
Il grande caldo è un putrido sudore che sporca e inaridisce la legge della vita e dunque l’ordine del mondo. Con quella metafora del calore che sembra anticipare la decomposizione, Kipling aveva forse intuito che la vita e la Storia, di cui l’Impero da lui amato doveva essere il culmine, erano splendide e cieche società morte ricche di tesori, custodite inutilmente dall’antico serpente velenoso i cui denti non hanno più veleno.