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 2022  luglio 30 Sabato calendario

Intervista a Fabio Volo

Fabio Volo è bresciano, di mamma bergamasca e nonno cremonese. E vive a Milano. «Questo fa sì che mi senta profondamente lombardo. Noi lombardi non abbiamo quella cosa dei siciliani, dei pugliesi e dei sardi che si identificano nella loro regione e quando si incontrano all’estero si “riconoscono”. No, noi non diciamo mai: “Ciao, sono lombardo”. Ci identifichiamo di più nella città, nel comune: siamo milanesi, bergamaschi, di Sondrio. O di Brescia, come me».
Milano, però, le ha dato tanto.
«Sono cresciuto a Brescia e mi sento bresciano. Non mi sento milanese perché non sono nato qui, ma la difendo come se fosse la mia città. Ed è vero, mi ha dato tantissimo. Anche quando ho avuto la possibilità di lavorare da altre parti ho scelto di restare a Milano».
Per esempio quando?
«Quando ho avuto la possibilità economica di rallentare: abbandonando la tv sei più libero. Nel cinema le riprese durano 6-7 settimane e puoi andare avanti e indietro. Un libro puoi scriverlo dove vuoi. Anche la radio puoi farla da qualsiasi posto».
Il suo cibo lombardo preferito?
«Da parte bresciana, lo spiedo con la polenta, che è un piatto nostro tipico bresciano. È fatto con tanti tipi di carne, che cucina per ore e ore. La versione originale sarebbe con gli uccelli, da bambino mangiavo quella».
Lo sa preparare?
«L’ho fatto con chi lo sapeva fare. In compenso so preparare uno dei miei piatti preferiti da milanese: il risotto con lo zafferano».
Il cinema che ha reso omaggio alla Lombardia?
«Tanti film. L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, tutto in dialetto bergamasco. Miracolo a Milano di Vittorio De Sica è un altro capolavoro. Gli stessi film di Aldo Giovanni e Giacomo mostrano una bella Milano e poi Il ragazzo di campagna, Lui è peggio di me. Li ho amati tutti. Pozzetto mi faceva molto ridere. Ho fatto un film a Cremona, La febbre, dove Cochi era mio padre. È stato bello».
Qual è il suo tratto più «lombardo»?
«Noi lombardi siamo poco mediterranei, più vicini ai tedeschi. La cultura mediterranea ha un ritmo di vita più lento e lamentoso, mentre noi siamo più vicini al pragmatismo tedesco. Se ci succede qualcosa, cerchiamo subito di risolvere il problema, abbiamo una grande velocità di reazione alle avversità, non pensiamo mai “è colpa di...”, non attendiamo che qualcuno risolva il problema al posto nostro. Più che fare leva sul talento che non so di avere, non so nemmeno quale sia di preciso, nella vita mi ha salvato l’atteggiamento pratico che riconosco come lombardo».
Quali sono i suoi luoghi del cuore?
«Ne ho tantissimi. Da bambino andavo a Bazena, a Passo Crocedòmini, sopra i tre laghi. Ci andavo con l’oratorio in vacanza estiva. I miei genitori non andavano mai in vacanza, la mia era quella organizzata dall’oratorio per le famiglie bisognose. Sono rimasto legato a quella zona, ci porto i miei figli. Noi bambini eravamo ospiti in una casa di proprietà degli alpini. Mia madre, poi, è del lago d’Iseo e ci ho trascorso l’infanzia. Ma sono legato anche al lago di Garda, alle montagne. Ci sono tanti posti belli qui, la Franciacorta...».
La facevo più tipo da mare.
«Il lago è il mare dei tristi, mette molta calma rispetto al mare. A me viene la malinconia».
Lei è un lombardo cittadino del mondo.
«New York è la città in cui mi sento a casa quando lascio Milano. È un posto dove ho amici, conosco i negozianti, ho una specie di vita sociale anche là, oltre a un appartamento che spiega perché mi capiti di andarci spesso».
Dove?
«A Manhattan».
Negozianti, amici. Cerca una dimensione cittadina anche nella metropoli per antonomasia.
«È la provincia che mi porto dentro. Le città grandi in fondo sono città piccole, perché poi vivi nei quartiere. Io nel West Village a New York sto per settimane senza nemmeno muovermi fino alla Quattordicesima, i miei amici mi prendono in giro. Vale anche per Roma. Mi piace stare il più possibile in mezzo alla vita normale. Anche a Milano porto i bambini a scuola, vado in latteria, al Carrefour, cerco di vivere nel tessuto sociale il più possibile, mi salva da tante cose».
Perché dice così?
«È la mia condizione. Sono diventato famoso a 30-31 anni, ero già formato, avevo già il mio stile di vita e i miei equilibri. Sono diventato riconoscibile quando avevo una personalità. Ho portato la mia persona dentro questa situazione e mi sento molto più sano, più strutturato emotivamente rispetto a quei colleghi che si perdono».
È il rischio di essere al centro dell’attenzione.
«L’invadenza è così forte che poi il mondo esterno comincia a far parte del tuo mondo interno. In Kill Bill David Carradine spiega la differenza tra Spiderman e Superman, che diventano supereroi quando indossano il loro vestito. Ecco, quando io quando vado a New York lascio il vestito di Fabio Volo a Malpensa, non ho bisogno di sapere che sono Fabio Volo per andare da qualche parte. Una volta ho incontrato una persona famosa che mi ha detto: “Non vado lì perché non mi riconoscono e non so come mi devo comportare”».
Invece lei non si prende sul serio.
«Gliel’ho detto. Sono arrivato già grande in questa cosa, io ci entro ed esco continuamente. Vivo in una casa dove colleziono statue del Sacro Cuore di Gesù, non ho foto mie appese sui muri di casa, ho altari e candele dove prego e medito ogni giorno, la mattina e la sera. Non solo non mi identifico con Fabio Volo, ma nemmeno con Fabio».
Le piacerebbe vincere l’Ambrogino d’Oro?
«Mi piacerebbe vincerlo per aver fatto qualcosa di bello. Ma non ho la mensola con i premi, non li vinco mai. Dovrei fare un discorso lungo su questo, ma poi sembrerebbe la storia della volpe e l’uva. Non sono andato a scuola per tanto tempo e non si è mai strutturata in me la forma mentis che quando fai una cosa una persona ti dà un voto: vali il 5, il 7, il 9 del prof. Io ho avuto la formazione professionale con mio padre: il forno è la coscienza, se hai fatto bene le cose il forno te lo dice».
E torniamo a Brescia, alla provincia.
«Il mio metro di valore è quanto mi sono impegnato. Se mi sono impegnato al massimo e il risultato è scarso accetto che più di così non potevo fare. È quello il mio premio. Se mi sono impegnato tanto mi do 10, al di là del risultato. Se sono stato pigro so che dentro di me c’è poco da godere. Alla fine i miei premi sono i risultati, le cose che ho fatto di lavoro fino a oggi».
Undici libri, otto milioni di copie, quattordici film. Anzi, quindici.
«Sì, ho appena finito di girare Una gran voglia di vivere, tratto dal mio penultimo romanzo: la regia è di Michela Andreozzi. E sto iniziando a lavorare alla sceneggiatura di Una vita nuova, l’ultimo, perché voglio fare un film anche di questo. Poi a settembre mi metterò a lavorare al prossimo romanzo».
E il regista non lo vorrebbe fare?
«Eh no, quello del regista è un lavoro vero e io sto cercando di evitarlo il più possibile».
A giugno ha portato i suoi figli sul set per la prima volta. Ha postato le foto su Instagram.
«Ero un po’ preoccupato perché dovevamo girare la scena in cui partivo per la prima volta in vacanza con il mio figlio del film: non sapevo come l’avrebbero presa. Invece si sono messi a giocare subito e sono diventati amici. È stato emozionante per me. Sebastian ha otto anni e mezzo, quasi nove, Gabriel otto. Non li avevo mai coinvolti prima».
Si rendono conto che lei è un personaggio pubblico?
«Non mi conoscono tanto come personaggio pubblico. Io ho avuto due grandissime forze trainanti: una la situazione economica della mia famiglia, che era devastante, quasi traumatica; l’altra un padre che lavorava sempre, dunque l’assenza del padre. Ogni tanto penso che i miei figli non hanno né l’una né l’altra. Credo di aver trascorso più tempo con loro di quello passato con mio padre tutta la vita. Loro non hanno mai sentito la mancanza del padre o della madre».
Danno per scontato l’agio in cui stanno crescendo?
«No, sia io che la mamma siamo attenti a dare valore alle cose».
È riuscito a portare i suoi figli allo stadio? L’ultima volta che l’ho intervistata, a dicembre, doveva ancora farlo.
«Sì e li ho portati l’anno giusto, quando il Milan ha vinto lo scudetto. Adesso possiamo aspettare per altri 15 anni».
Ma lei è un tifoso anche del Brescia.
«Il Brescia mi ha fatto sperare fino all’ultimo, non è una squadra che ti chiede di rinunciare. È sempre una sofferenza infinita».
Lì, i bambini, li ha portati?
«No, loro cerco di lasciarli meno legati alla mia vita. È la nostalgia che di solito spinge i genitori a far fare ai figli gli stessi passi».
Prima abbiamo parlato dell’Ambrogino. Ma invece non le piacerebbe vincere un premio letterario?
«Sarei anche contento, ma non appartengo a nessun circolo. Forse mi daranno un premio al carriera quando avrò 80 anni. Non mi hanno mai dato nemmeno le “Cuffie d’oro”, che sono i premi per la radio, molto meno intellettuali del cinema e della letteratura. Eppure faccio da 20 anni un programma che è veramente bello. Però non ho la faccia di uno che prende i premi, non tendo a essere simpatico».