Corriere della Sera, 29 luglio 2022
Paolo Rossi rilegge Orazio
«Ho debuttato a 6 anni, quando frequentavo l’asilo a Monfalcone. Il mio primo personaggio è stato Nerone e non fu la maestra a decidere, ma io perché mi piaceva l’idea dell’incendio. Tuttora sono bravo a incendiare». Paolo Rossi ora torna a «incendiare» Roma con lo spettacolo «Stand up Orazio», il 3 agosto sull’Isola Tiberina, sul palco dell’Arena Lexus. Dopo gli stand up dedicati a Shakespeare e poi a Omero, adesso si confronta col poeta Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa, colonia romana della Basilicata antica.
«È un modo per reinventare dei classici – esordisce l’attore – usando il mio mestiere, che non è quello di fare un’analisi critica o rivisitazione storica alta e puntigliosa. Mi diverto a creare un racconto con libere associazioni tra passato e presente, prendendo spunto dalle Odi e dalle Satire, dove l’autore analizza i difetti umani e quanto siamo responsabili di quello che ci accade. In particolare, c’è un’Ode sul vino che mi piace tanto, perché parla della giusta misura nel bere, senza oltrepassare il limite, cosa che io, in un periodo della mia vita, non ho osservato... e adesso non bevo più».
I versi di Orazio sembrano composti oggi, adatti alle attuali categorie umane che non dovevano essere diverse ai suoi tempi? «Beh, basta guardare i politici di oggi, il Parlamento è diventato la parodia di sé stesso: in passato amavano essere imitati dai comici, per ottenere maggiore visibilità, adesso ci hanno rubato il mestiere, sono loro che imitano i comici, sono delle vere star».
A cominciare dal vero comico Beppe Grillo? «Certamente è un grande comico. Anche a me piacerebbe fondare un movimento serio, perché no?, ma il rischio è di ritrovarmi a creare un partito comico. D’altronde, sono quasi laureato in Scienze politiche, però quando durante le assemblee universitarie prendevo la parola, puntualmente ridevano tutti e allora ho capito che dovevo prendere un’altra direzione».
Il teatro si conferma un rito collettivo, a differenza del cinema. «Tutto ciò che è “dal vivo” ci guadagna nonostante la pandemia. A me basta salire sul tavolino in un bar e diventa teatro. Il cinema ormai si vive in casa: inviti gli amici per vederti un film, cosa che non può avvenire per il teatro. Meglio dal vivo che dal morto». Ma siamo diventati più maturi con il Covid, la guerra e ora con la caduta del Governo Draghi? «No, semmai siamo peggiorati e per questo adesso è giusto Orazio, perché nei suoi scritti vengono fuori tutti i difetti della natura umana».
Paolo Rossi è stato spesso censurato per le sue invettive, persino scomunicato dall’Arcivescovo di Carpi per il suo spettacolo «Operaccia romantica», considerata sacrilega. Teme altre censure? «La cosa peggiore, semmai, è la nuova censura, ovvero, l’autocensura, cioè la paura di apparire troppo fuori dal coro, di dire cose non politically correct. Io sto cercando di vincere questa paura, ma sto attento, l’azzardo è ben calcolato».
In passato aveva espresso il desiderio di ottenere la cittadinanza Rom: l’ha ottenuta? «L’ho chiesta, perché faccio da sempre una vita simile a quella degli zingari... E infatti, quando dissi a mia madre che intendevo fare l’attore, sentenziò: finirai in un campo o sotto i ponti. E la profezia si sta avverando. Però i Rom mi hanno risposto: non siamo in grado di darti la cittadinanza, tutt’al più possiamo offrirti una roulotte».
Dopo la pandemia, la guerra e la crisi governativa, cosa si aspetta che possa ancora accadere? «Che arrivino gli alieni, ci manca solo questo, ma sono pessimista. Se dovessero sbarcare sulla Terra, credo che se ne andranno via subito, perché diranno: che clima di m... che avete! E se ne tornano sul loro pianeta».