la Repubblica, 29 luglio 2022
Intervista a Lazza
Il telefono si è surriscaldato, lui gli fa impacchi di ghiaccio. Chiamano tutti per congratularsi con Jacopo Lazzarini, milanese classe 1994, in arte Lazza, Zzala per chi ha confidenza con le inversioni linguistiche del rap. Domina la classifica dei dischi più venduti nell’estate più rovente con Sirio,come la stella più luminosa e canicolare del cielo, e accade tre mesi dopo la sua pubblicazione, in un mercato in cui le posizioni si perdono alla velocità della luce.
Nella “rapubblica” fondata sullo stream, Lazza ha superato quota 250 milioni, è primo anche fra i singoli conS!R!di ThaSup, insieme all’amico Sfera Ebbasta, che definisce “una hit con le gambe”. La sua storia è simile ad altre: adolescenza fra le case popolari, lavoro in cantiere con il padre, improvvisatore di rime al muretto.
Ma Lazza è anche un atipico nel suo genere. Suona il pianoforte in alcune tracce, ha la faccia di Chopin tatuata sul polpaccio. Strano stupirsi che chi fa musica sia anche musicista, eppure lo distingue il fatto di aver frequentato il Conservatorio Giuseppe Verdi. E sì, si autocelebra.
Fa parte del gioco rap, soprattutto ospitando due pesi massimi del settore (gli americani French Montana e Tory Lanez), ma poi si allontana dalla trap, inPanico e
Molotov va verso gli anni 80 di Moroder e Police, inTop Boycampiona Gnossienne n. 1di Erik Satie. Sembra che il rap cominci a stargli stretto. Il suo terzo lavoro è piu introspettivo. Canta: “Penso così forte che faccio buchi alle mura”.
Da dove arriva la malinconia di “Sirio”?
«Ogni rapper vuole brillare più di altri, ma brillare da solo è difficile. Mi sono sentito isolato in questi due anni e mezzo, la crisi del settore dello spettacolo è stata ignorata.
Come se la musica non fosse impresa e non generasse introiti.
Eppure a un concerto vengono in migliaia. Facciamo più coperti di un ristorante».
In Italia la musica non è considerata lavoro?
«Solo chi non l’ha mai fatta può pensarla così. Non sa quanto impegno, stress e persone ci vogliono per coordinare un disco e un tour. Ero molto meno stanco quando lavoravo in cantiere. Delle volte sembra che vada punito chi riesce a fare un mestiere che lo fa sentire bene. E lo capisco, se guadagni poco per un lavoro che nemmeno ti piace».
Piu cuore e meno spocchia. È stato questo a farla decollare?
«Ho trattato questo disco come fosse la mia casa. Ho scelto chi doveva entrare, come arredarlo, ho messo cura in beat, mix, rime, e ho illuminato gli angoli più bui, uscendo dalla mia comfort zone. Ora ho capito che sono in grado di fare tutto, basta che sia credibile».
Non ha rinunciato però a citare Scarface, American Gangster, Il Padrino. Che fascino esercitano?
«Sono solo film. Non credo che i miei colleghi italiani facciano quella vita.
I delinquenti li conosco, e sono abbastanza scaltri da non farsi vedere. Comunque mi sto allontanando da quell’immaginario rap perché mi sembra falso, o romanzato. Sempre le stesse quattro cose, è ora di fare la differenza».
Si è allargato al pop, non è che si prepara a Sanremo?
«Lo farei solo da ospite o da presentatore. Sono troppo competitivo, le gare non mi piacciono. Le facevo con il freestyle nei centri sociali, ma lì ci scontravamo sullo stesso campo, e per vincere una birra».
Perché si è iscritto alConservatorio?
«Da piccolo mio nonno mi regalò una pianola e mi appassionai.
All’inizio mi esercitavo al pianoforte nei negozi di strumenti. Non ho preso il diploma perché ho avutoqualche incidente di percorso, ma ho seguito abbastanza per avere un’apertura mentale che mi avvantaggia».
Nella musica classica niente è demandato alle parole. Non è l’opposto del rap?
«Mi piace per questo. Ci sono variazioni e non ripetizioni, tira fuori l’emotività. Ascolto Mozart quando ho l’ansia perché me la toglie. Adoro Chopin perché è il più triste, come me».
Qualche fan cerca di seguire le sue orme?
«In tanti si sono avvicinati al pianoforte. Sono grato a questi ragazzi. È una scelta costruttiva. Sto pensando di piazzarlo sul palco nel tour invernale».
Ha avuto un battibecco social con Rocco Tanica degli Elio e Le Storie Tese. Gli ha detto: «Davanti a un pianoforte ti faccio fare brutta figura».
«Non sono uno che si presta ai dissing. Se cerchi visibilità, vuol dire che la tua musica non vale abbastanza. In questo caso mi sono offeso perché sono un fan degli Elii, mio papà me li faceva sentire da piccolo. Ci sono rimasto male perché Tanica mi ha incluso nella categoria di quelli che cantano con le basi sotto».
Invece?
«Io vedo il concerto come la cosa più importante del mio lavoro. A metà del live faccio alzare il dito medio al pubblico, rivolto al prossimo che si azzarda a cantare in playback. Se vai a prendere diecimila euro per uno show, meritatelo e rispetta chi si suda lo stipendio».
Canta: “L’Italia è una Repubblica fondata sul trash”. Cos’ è trash?
«Il troppo senza gusto, l‘ostentazione».
Il rap non è ostentazione?
«Sto cercando di affrancarmi da quell’aspetto. Ho postato la foto con un orologio “pesante” nel giorno del mio doppo platino. Ma con un orologio non butti i soldi, è un investimento. Per il resto, mi sono reso conto che è meglio essere vicino alla gente. In questi tempi difficili non è rispettoso sbattergli i soldi in faccia. Se devo vantarmi, lo faccio per il tour esaurito e per un disco che spacca».
L’ossessione per i soldi non deriva anche dal senso di precarietà? Senza una visione del futuro, tanto vale consumare tutto subito…
«Ma io al futuro ci penso eccome. Ci sono sempre meno cantanti nel mio settore e io voglio diventare il numero uno. Poi vorrei aprire un negozio di orologi o di sneakers serie limitata. Sono un collezionista, a casa ne ho 400 paia. I soldi mi servono per costruire un’attività, per il resto ho scoperto che rendono le persone più sole. Da quando ho fatto un po’ di fortuna, non so più di chi fidarmi».