La Stampa, 29 luglio 2022
L’isolitudine siciliana
A poche ore dalla notizia che l’insularità rientrerà nella Costituzione italiana, scrivo queste righe sul traghetto che da Messina mi porta a Villa San Giovanni, comune della città metropolitana di Reggio Calabria.
La durata del tragitto in mare è di venti minuti, come un medio tragitto in autobus e, più tardi, solcherò di nuovo lo Stretto in direzione contraria per rientrare in serata. Per noi messinesi è normale questo tipo di pendolarismo, difficile da spiegare invece a chi vive lontano dalla costa, sia sulla terraferma sia nella parte interna dell’isola. Qui sullo Stretto, dicono gli altri siciliani, non si è davvero isolani: il continente è troppo vicino, troppo in faccia, perché si possa avvertire l’isolamento. Oppure, correggo io, è proprio qui che ci si sente isola per davvero: dove la terraferma è di fronte, a ricordarci che noi, invece, siamo un’altra cosa.
Del resto lo sappiamo da sempre, da prima di essere investiti da tutta la letteratura della sicilitudine (e, specularmente, della sarditudine). Lo sappiamo da quelle pubblicità che da bambini assicuravano spedizioni di merci in tutta Italia, “isole comprese”. E quali sarebbero mai queste isole, mi chiedevo le prime volte, stranita: per noi messinesi, “le isole” sono quelle della nostra provincia, le Eolie, che non abbiamo neanche bisogno di chiamare per nome per differenziarle dalle Egadi o dalle Flegree. Sono le isole e basta. «È alle isole», si dice di chi in estate ruba un po’ di vacanza e di irreperibilità per andare a Lipari o a Salina per qualche giorno o anche per uno solo. Del resto, lontano da qui è difficile anche capire questo: che si possa andare a Vulcano la mattina in aliscafo e la sera rientrare a Messina, che in questo caso non è più isola ma terraferma. Ogni isola è isola rispetto a isole minori e terra per le maggiori, tutte hanno un loro satellite, persino Stromboli ha Strombolicchio. Un’isola può essere uno scoglio, oppure un continente intero: che altro sono i continenti se non grandi isole emerse?
A pensarci bene, forse la terraferma non esiste.
Ecco, questo è un tipico esempio di mitomania isolana, mi dico mentre il traghetto è già a metà strada e mi trovo in quel punto equidistante tra due terre e due mari che sono abituata a chiamare casa. Qui la costa calabrese è a due chilometri e altrettanto quella messinese, qui si può essere quello che si vuole: né siciliani di scoglio né di mare aperto, ma tutti ulissidi che devono salvarsi da Scilla e Cariddi, e dal canto delle sirene.
Qui si può sorridere di tutto, persino della notizia per cui il problema dell’insularità è stato riconosciuto con consenso unanime. Quello che viene definito un problema è, infatti, su un altro piano, il punto di forza della cultura dell’isola.
Isolitudine e sicilitudine sono le due parole su cui si è giocato per marcare una specificità culturale, insistendo sull’isolamento come crocevia multiculturale, a partire dall’andirivieni di popoli che qui hanno lasciato traccia, dagli arabi ai normanni. Avere il mare come confine stabilisce che noi non possiamo sconfinare se non su un traghetto o su un aereo, quindi per acqua o per aria. Chiunque metta un cartello per decidere che una regione è finita lì per noi sarà sempre un po’ strano: non abbiamo bisogno di linee e tracciati, basta il Mediterraneo a dirci dove iniziamo e dove finiamo. Quindi sì: essere nati su un’isola è diverso dall’essere nati in qualsiasi parte del mondo, e forse è giusto che, al di là dell’aspetto economico, questa originalità sia riconosciuta.
Adesso lo dirà la Costituzione, ma noi lo sappiamo già, lo abbiamo sempre saputo. Sarà quel pizzico di mitomania che proprio non ci riesce di ridimensionare. Da oggi non è più un segreto, mi dico mentre stiamo per attraccare: sono già finiti quei venti minuti che ci separano da tutto. Così pochi per arrivare dall’altra parte, così tanti da definirci, per sempre, un’altra cosa.—