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 2022  luglio 29 Venerdì calendario

In morte di Pietro Citati

Giorgio Montefoschi per il Corriere
Fra sei mesi Pietro Citati avrebbe compiuto novantatré anni, essendo nato nel 1930 da un importante dirigente di una compagnia navale e da una donna che mi ha sempre descritto come molto elegante e molto bella, e anche in un certo qual modo altera. Da lei, probabilmente, derivava l’alterigia che molti attribuivano a Pietro, e non a torto, tutto sommato: severissimo nei giudizi, in particolare nel periodo in cui scriveva di contemporanei su «Il Giorno», spesso crudele, una fortezza insormontabile per le molte richieste che gli arrivavano dagli uffici stampa e dagli scrittori stessi. Del resto, quando faceva il critico militante, un suo articolo favorevole muoveva subito un bel numero di copie.

Ma questa alterigia, certo non invitante, era assolutamente di facciata. Chi lo conosceva bene, e profondamente, sapeva che nascondeva la bontà e la pietà nei confronti del suo prossimo: quei sentimenti veri che non si possono esibire o tanto meno sbandierare; quei sentimenti che, nel caso di Pietro Citati, un estremo pudore finiva per cancellare completamente, laddove ne era intriso. Era un pudore, feroce, che Pietro riservava in primo luogo a se stesso. Siamo stati amici, amici veri, per di più lui in quegli anni soffriva di una depressione tremenda che lo rendeva infelice. Usciva di casa, mi raccontò, arrivava a Villa Borghese, si sedeva su una panchina e piangeva per un’ora. Non lo avrei sospettato. Perché noi a passeggiare al Parco dei Daini andavamo almeno un paio di volte alla settimana e lui sembrava contento, parlavamo di libri, di tutto, diceva: che bello questo sole invernale... insomma. Invece, quando due anni fa morì sua moglie Elena, la mattina in cui andai a casa sua in via Lutezia, era stremato e non me lo nascose affatto. Poi, qualche mese dopo, mi disse: Elena, quando la vidi la prima volta, era bellissima, vestita di nero perché era appena morto suo padre. Niente altro. L’aveva amata moltissimo, come Stefano, il loro figlio. Un pomeriggio, mentre ritornavamo verso casa e, come sempre, avevamo parlato di scrittori buoni e cattivi, di Giorgio Manganelli e di Carlo Emilio Gadda che lui reputata il più grande, «un uomo nobile», mi fermai sul marciapiedi e di colpo cercai di sorprenderlo, ma neppure, di avere la conferma di una cosa che credevo di sapere, e gli dissi (accomunandomi a lui oramai, dopo tutti quegli anni di passeggiate insieme): ma noi, Pietro, siamo cristiani. E lui, con un bel sorriso, mi rispose: e cos’altro potremmo essere secondo lei, Giorgio. Ci siamo sempre dati del lei, infatti. Fino all’ultimo.

Citati ha scritto libri bellissimi e importanti su Goethe, Tolstoj, Proust, Manzoni, Alessandro Magno, Leopardi, Kafka, Ulisse. Ma ancora più belli sono quelli che raccolgono i suoi saggi, come per esempio Il tè del Cappellaio matto o Il velo nero. La sua capacità di entrare in un libro, nei sui meccanismi e nei suoi segreti, nello svelare le sue oscurità, e nelle trame e nell’entrare nell’anima di uno scrittore era e rimane folgorante. Nessuno è stato così profondo.

Ricordo la prima volta, a casa sua. Avevo ventidue anni. Gli avevo portato la mia tesi su «Menzogna e sortilegio». Conoscendo la sua fama ero terrorizzato dal giudizio, né lui si adoperava a sciogliere codesto terrore. A un certo punto mi chiese che cosa volevo fare da grande. Io gli risposi che volevo scrivere un romanzo, ma prima volevo essere ben sicuro di quello che avrei scritto, insomma volevo pensarlo prima. Fu spietato. Mi disse: i libri non si pensano, si scrivono. Fu il primo di molti insegnamenti. Addio, Pietr o.


Paolo di Paolo per la Repubblica

Lo scrittore e critico è morto all’età di 92 anni. Firma delle pagine culturali di “Repubblica”, vinse il premio Strega con il libro dedicato a Tolstoj
Per dirgli addio come si deve, bisognerebbe saper scrivere un ritratto di Pietro Citati “à la Citati”. Bisognerebbe cioè costruire un piccolo romanzo critico, il cui protagonista, sfuggente, misterioso, sia l’incarnazione — una delle ultime; o forse, in Italia, davvero l’ultima — del letterato puro. Il sacerdote di un culto laico, votato a un’ossessione quieta, a una malattia felice (la «malattia dell’infinito», volendo usare una sua formula): quella dell’iperlettore che diventa artista senza essere autore di romanzi, ma raccontando e studiando, e in qualche modo riscrivendo, i libri altrui; quella del critico-interprete- rabdomante che rinuncia in partenza a qualsiasi strumentazione e ipoteca di natura accademica. Guadagna così una libertà sovrana e incondizionata: nella forma del saggio-racconto che aderisce all’oggetto di studio, e ne prende il colore, il tono, la musica; una critica letteralmente camaleontica, che supera l’ufficio del giudizio in un abbandono integrale all’opera — come a un lembo di mare domestico, di cui si conoscono perfettamente i fondali, le temperature, le insidie, e soprattutto le bellezze segrete. Ecco una metafora adoperata alla sua maniera: per schiudere un’altra immagine e farla lampeggiare in una sequenza già fitta di immagini, in una foresta di visioni altrui — inventariate, parafrasate, glossate, delibate a lungo, con un piacere che diventa contagioso, che irretisce il lettore, lo contagia.
È impossibile non riconoscere il magnetismo della sua prosa: un italiano bellissimo, sinuoso e avvolgente, in cui l’uso non convenzionale dei due punti somigliava a un timbro. Ampi, debordanti rispetto alle misure canoniche, gli articoli di Citati somigliavano solo agli articoli di Citati, come sanno i lettori che per anni lo hanno seguito su Repubblica , dove arrivò chiamato da Scalfari nel 1988: invadevano il paginone di cultura e — indifferenti alle tipiche occasioni giornalistiche, incuranti dell’attualità, con quel filo di sprezzatura che era un tratto del suo carattere — trascinavano altrove il lettore. Là dove non si è più raggiungibili dalle pretese, dalle incombenze e dalle delusioni dell’oggi: in un sovratempo che è dominio della grande letteratura, da Omero a Leopardi, da Montaigne a Flaubert, a Proust, a Virginia Woolf. E che, se conosciuto da ragazzini, diventa un destino.
Il bambino «timido, goffo, malinconico e un po’ solitario» nato a Firenze nel 1930 incontra molto presto, insieme ai fumetti dell’ Intrepido , le storie di Salgari e Verne; e già a quattordici anni — come si scopre nella “Cronologia” del Meridiano Mondadori La civiltà letteraria europea , curato da Paolo Lagazzi — legge Ungaretti. Nella seconda metà degli anni Quaranta, a Torino, conosce Elémire Zolla e Italo Calvino; diventato normalista a Pisa, studia Leopardi e venera Contini; potrebbe diventare facilmente undocente d’università, ma preferisce la strada del dilettante di talento, dello scrittore per giornali che — una volta arrivato a Roma, nel ’54 — si immerge nel mondo letterario e editoriale. Le grandi amicizie di Citati, autentici sodalizi intellettuali: Elena Croce, Cecchi, Bassani, Attilio Bertolucci, Manganelli, Gadda, Fruttero, Fellini. Scrive sulle riviste, collabora con gli editori; fa da tramite, da maieuta, da consigliere e consulente nobile. Anche per Calvino, che di lui apprezzava la «febbre conoscitiva e amorosa verso il tutto », con qualche riserva sul mimetismo del suo approccio. Chetuttavia lo porta, quarantenne, all’esito notevole del Goethe nel ’70; poco più avanti alle pagine ispiratissime di La collina di Brusuglio , su Manzoni, e alla raccolta
Il tè del cappellaio matto , una delle più belle, in cui confluiscono gli articoli nati dalla fitta collaborazione con Il Giorno e da cui si desume già nitidamente un’idea di scrittura critica — avrebbe detto Citati stesso, citando Sainte- Beuve — più lirica e più “fisiologica”.
In sette decenni di lavoro, ha recensito e spesso stroncato centinaia di libri. Di rado si innamorava di autori contemporanei (Yehoshua, Marías, il primo Baricco, Foer), più spesso ne era irrimediabilmente deluso. Il suo cursore magico si è mosso con disinvoltura fra le epoche: dalle grandi narrazioni bibliche, «folte e congestionate », ai romanzi sperimentali del Ventesimo secolo; da Alessandro Magno a Tolstoj, cui dedica il volume monografico che vince il premio Strega nel 1984; da Cervantes a Katherine Mansfield a Francis Scott Fitzgerald. Una galleria affollatissima di autrici e autori, di pensatori, di predicatori, santi, remotissimi fondatori di culti, uomini politici, re e regine dell’antichità, musicisti, esploratori, che Citati insegue, come fossero in fuga, nel loro cammino di conoscenza; li spia, li studia, li interroga, fino a che sente maturo l’istante in cui è possibile farne un ritratto. Ecco, il ritratto! Un’arte buona per maestri fiamminghi e per fotografi di genio: Citati li costruiva a parole, ritrovandosi in compagnia di gente nata fra la fine dei Venti e i primi Quaranta come Garboli, Arbasino, Siciliano, nella stessa «pianura proibita ». E forse anche di Roberto Calasso, che ha portato i libri di Citati nel catalogo Adelphi — sono morti nello stesso giorno a distanza di un anno. Entrambi affascinati dalla caotica armonia di un mondo remotissimo ancora popolato dagli dèi; ed entrambi abbagliati dal mistero di Kafka: all’autore della Metamorfosi Citati dedicò nel 1987 il suo libro «più drammatico e angosciato»: «Ora mi sembrava un fratello maggiore, ora un fratello minore da proteggere.
Veneravo la sua prodigiosa intelligenza e il suo dono teologico, quell’interrogare di continuo gli dèi con ogni specie di ipotesi, aspettando che gli dèi rispondessero. Forse gli hanno risposto. Ma ogni loro risposta provocava una nuova domanda». Accade lo stesso per gli dèi della letteratura che Citati ha interrogato nel corso della sua lunga vita; per tutti coloro che hanno saputo riempire di storie — felici, dolentissime, funeste che fossero — lo spazio indicibile fra il silenzio e l’abisso.
I funerali di Citati si svolgeranno a Roma domani alle 11.30, nella chiesa di San Roberto Bellarmino
È impossibile non riconoscere il magnetismo della sua prosa: un italiano bellissimo, sinuoso e avvolgente Arrivò chiamato da Scalfari nel 1988: i suoi articoli invadevano il paginone incuranti dell’attualità Come Roberto Calasso, che volle le sue opere nel catalogo Adelphi, era affascinato da un mondo di remoti e abbagliato dal mistero di Kafka





Carlo Fruttero, Mutandine di chiffon - La Stampa

Tanto vale togliersi subito il pensiero: Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l’unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esistono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tolstoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile. Gli esclusi lo vorrebbero morto, uno così. Come si permette, chi si crede di essere?
Li capisco benissimo, sia chiaro. Di Citati mi considero oggi un caro amico, ma anche con me, dopo tanti anni, se gli viene in mano il coltello a serramanico non esita a far scattare la lama. Mai alle spalle, però, sempre faccia a faccia, che è forse anche più insultante. Il critico, il letterato, può dunque apparire e magari saltuariamente essere odioso; ma l’uomo non è cattivo, tutt’altro.
Io lo conobbi nel 1958 o ’59 in casa editrice Einaudi, dov’era passato a salutare i suoi compagni di scuola (Normale di Pisa) Ponchiroli e Bollati. Passò anche a salutare Calvino, che ammirava e di cui era amico, ma Italo aveva appena lasciato l’ufficio e Citati restò lì al mio tavolo qualche minuto a parlare di fantascienza, le antologie da me curate essendogli molto piaciute. Gentile, sembrava.
Molti anni dopo Gianni Merlini e io, stufi della troppo umida Versilia, cercavamo casa più a sud, in Maremma, e Citati, grande amico di Gianni, ci ospitò per due o tre notti a casa sua.
La sua casa era una vera e propria tenuta, con un prato ampissimo, immensi alberi ombrosi, viali infilati sotto fitti rami e cespugli, una cappelletta tra gli ulivi, filari di alberi da frutta. L’edificio, benché costruito negli anni Trenta, restava felicemente fedele a canoni di sobria rusticità toscana. Niente civetterie anticheggianti, solida, comoda naturalezza in quei terrazzi, loggette, salette e saloni e alti finestroni. La Castellaccia, si chiamava la frazione, dotata di una botteguccia di alimentari e attorno un minuscolo borgo.
(...)Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre. Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la quarta gallina, l’arrotino laggiù, la Stella un po’ più in basso, e così via fino alla perfezione. La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell’urlio continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.
Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un illustre e potente personaggio dell’establishment culturale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. (...)Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d’altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smoking. Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale. Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po’ sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A palazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l’elastico, che su una bella camicia bianca... Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.
Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, superiore alle pompe del mondo? Chissà (c’era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega...). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo. Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti). Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati.
Poteva succedere che si presentasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimili. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzontali verdi e beige, terribile. «Ma sei impazzito?» protestavo io. Sulle cosette esteriori si lasciava dire, sorrideva indulgente, filosofico. «Be’, che c’è di male, l’ho trovata su una bancarella a Arcidosso».
Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po’ di quel festival. Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti.
(...) Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi appassionati, gli "scopritori", già avevano smesso di andarci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D’altra parte il pubblico doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell’influenza aviaria.
«E se non troviamo da dormire?» dicevo io. Da autentico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spoleto non c’era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita. Lui sparì, taciturno e grintoso, e quando tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annunciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di salita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarcene a dormire dopo lo spettacolo. «Quale spettacolo?», «Così fan tutte, nel famoso teatrino del festival. E anzi, alzatevi e andiamo», «Ma i biglietti? ». Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell’ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria. «Sono Pietro Citati» disse duro alla ragazza. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiarissimo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi al pernacchio.
Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le sedie. Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le accecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. Entrammo in non so quante case, attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo).
Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per Ti trovo un po’ pallida. Il giorno della partenza andammo a sederci nel grande caffè sulla piazza che digrada appena verso il Duomo. File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolcemente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate.
«È bello - dissi a Citati -, avevi ragione». «Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero. —

Mariarosa Mancuso per Il FoglioAvete mai sentito uno scrittore che per raccontare la sua amicizia con un altro scrittore parla di coltello a serramanico? “Anche con me, dopo tanti anni, non esita a far scattare la lama”. Intendiamo: del coltello parla in pubblico, e lo mette per iscritto, mentre l’altro scrittore è ancora vivo. Non erano smancerie di facciata e pugnalate dietro la schiena, come succede tra scrittori. Erano amici davvero. Pietro Citati la mattina scriveva nella sua casa in Maremma, poi in macchina faceva i venti chilometri che lo separavano dal capanno sulla spiaggia di Carlo Fruttero, e lì si metteva a leggere il giornale. Conversazione, poca. Fruttero dice che Citati non ammetteva repliche. Da Ti trovo un po’ pallida, edizione 2017: “Quella Citroën, di quel colore, di quella cilindrata, è l’unica giusta; quella pasticceria di Gavorrano è l’unica che sa fare i salatini; quel certo albergo in Cadore è l’unico dove si sta veramente bene… Se accenni a un albergo in Val d’Aosta, Citati taglia corto con una smorfia: ‘La Val d’Aosta non esiste, cancellata dalla mappa’”. Va detto che di amicizie “soccombenti”, o almeno dispettose a suo sfavore, Citati sapeva qualcosa per via del sodalizio con Carlo Emilio Gadda, che puntualmente gli telefonava all’una e mezza, mentre il pranzo in tavola si raffreddava. Le mattine lavorative erano dedicate alle biografie, Citati style. Sempre riguardanti i grandi della letteratura – aveva fatto in gioventù il critico militante, facendosi più nemici che amici, come è giusto, poi aveva deciso per i valori sicuri. La svolta verso le biografie – con Tolstoj vinse nel 1984 il premio Strega – è sempre sfuggita alle nostre forze di lettori per il resto onnivori. Funziona così: si legge per bene l’opera di uno scrittore – Kafka o Katherine Mansfield per ricordarne un paio soltanto, ma ci sono Goethe e Dostoevskij – e si riscrive la vita alla luce dell’opera. Saccheggiando lettere e citazioni. Sfruttando il talento dei grandi. Esempio pratico, La metamorfosi di Franz Kafka racconta un uomo che dopo una notte di sogni inquieti si risveglia scarafaggio. Ebbene, secondo Citati Kafka la notte prima di scrivere ebbe gli incubi, non arriva a dire “a forma di scarafaggio”. Il lettore lo capisce da solo, mette i libri in salotto e si convince che tra letteratura e vita c’è appena un rimbalzo. Ovvio che così i conti tornano, come neanche Sainte-Beuve avrebbe osato sperare. Era costui un critico ottocentesco, convinto che la vita dell’autore avesse grande importanza per giudicare l’opera, Marcel Proust scrisse un saggetto per sostenere la tesi opposta (e più matura): “Sciocchezze, le opere devono stare in piedi da sole”. Niente da fare: anche Proust è stato sottoposto alla cura Citati. Noi stiamo con Proust, e non useremo contro Citati la faccenda dei pomodori che non sono più buoni come una volta (Elogio del pomodoro, già caduto sotto la mannaia di Antonio Pascale), e neppure i ripetuti passaggi da Repubblica al Corriere della Sera e ritorno. Bene perché trattava sul prezzo, male perché certe recensioni sembrava proprio di averle già lette. Colpa più grave, Pietro Citati era capace di raccontare un romanzo per filo e per segno, colpi di scena inclusi, aggiungere poche righe, e la firma. Con sprezzo dei lettori che si stavano godendo la trama. Ricordiamo invece con piacere Storia prima felice poi dolentissima e funesta, protagonisti i suoi bisnonni innamorati.