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 2022  luglio 29 Venerdì calendario

Un ricordo di Demetrio Stratos, il re degli Area

Lo tradì il cuore, mai la voce. Quella sera all’Arena di Milano eravamo andati in 60 mila per salvargli la vita. Quasi tutti senza sapere che la notte prima, al Memorial Hospital di New York, Demetrio Stratos, il re degli Area, l’aveva già perduta, inghiottita dalla malattia, che il concerto allestito al di qua del mare voleva sconfiggere, pagando il conto del chirurgo e del midollo osseo necessari al trapianto. Quel rito di accendini e jam session di musicisti amici, divenne l’ultimo omaggio alla sua voce, alla sua storia, alla sua faccia di granito greco con i capelli pieni di vento.
Demetrio è stato il solista più veloce a conquistare il decennio intitolato all’Orda d’oro e poi a scomparire nello stesso istante in cui quel decennio di ossigeno e di piombo dileguava in rendiconti e rimorsi.
Salutò senza salutare. Si inchinò senza comparire. Aveva 34 anni, appena il tempo di godersi un po’ di passato rock e un po’ di futuro in jazz, studiare il canto delle balene, la doppia voce degli uomini ancestrali, l’enigma dei silenzi di John Cage, la danza sincopata di Merce Cunningham, le notti a New York con Andy Warhol, fino al quel guaio di malattia, che all’improvviso spense le luci per sempre, addio, lasciandoci la premonizione di Breton come un viatico, oppure una minaccia: “Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”. Frase incisa sulla copertina del suo ultimo album di vocalist Area, dopo i vinili che contenevano i capolavori Luglio, agosto, settembre (nero), Cometa rossa, L’Internazionale distorta molto oltre la dissidenza alla caserma sovietica. E poi La mela di Odessa che rotola da allora in un girotondo funky, ballato a tutti i concerti, quando ai concerti politici ancora non si ballava.
Era il 14 giugno 1979. Giravano luci e lacrime, quella notte di abbracci. Notte di controcultura collettiva a chiudere gli anni Settanta che erano stati belli e terribili, come lo è la giovinezza. Sul palco salirono gli Area, naturalmente, con Gioia e Rivoluzione al massimo volume, assolo di Paolo Tofani alla chitarra elettrica e di Patrizio Fariselli alle tastiere. Poi la Pfm di Mauro Pagani e Franco Mussida. Poi il Banco del Mutuo Soccorso di Francesco Di Giacomo che aveva voce danzante, il corrispettivo amniotico di quella di Demetrio.
Ma era sulle gradinate lo spettacolo. Era in quella commozione. Che fece scrivere a Giorgio Bocca un magnifico pezzo frastornato: chi è questo cantante appena morto che riempie l’Arena di cui noi borghesi non sappiamo quasi niente? In che mondo è vissuto. E in quale viviamo noi?
Povero Bocca. Era il mondo dei figli illegittimi e inattesi. Il mondo del festival del proletariato giovanile, Parco Lambro, 1974, filmato da Alberto Grifi. Il mondo delle avanguardie che a Milano abitavano dalle parti di via Leopardi, gli studi della Cramps Record di Gianni Sassi, dove fabbricava musica e riviste come Alfabeta e La Gola, le case editrici L’Erba voglio e Squilibri, ma sempre con mobili pignorati, cambiali in scadenza e assegni da farsi cambiare al Lucky Bar, un tavolo fisso per i Martini cocktail serali e i risotti sopraffini che lui cucinava per gli amici.
E poi era il mondo in viaggio permanente di Demetrio Stratos, nato nel 1945 a Alessandria d’Egitto da genitori greci, che aveva radici multiple, quanto le sonorità ascoltate. La musica araba nei suoi primi anni di sole egiziano, i canti religiosi bizantini a Cipro, poi la musica balcanica a Atene, dove frequenta il Conservatorio, studiando pianoforte. Infine, il beat e il rock quando si trasferisce a Milano, anno 1962, dentro al pulviscolo di gruppi che nascevano nelle cantine e nelle balere, lui tastierista e voce a ingaggio libero, fino a una certa sera, anno 1966, quando il batterista dei Ribelli, Gianni Dall’Aglio, scende le scale del Santa Tecla. “Cercavamo il cantante. Mi avevano detto che ce n’era uno forte, fortissimo al Tecla. Vado di corsa. È fine estate, mezzanotte, mentre scendo lo sento. È una voce che sale, che sale. Lo vedo: è alto, bello, sbracciato. Sta cantando un pezzo di Eric Burdon & The Animals. Sono in tre, una chitarra, una batteria e lui che suona un organino Vox, ma quando canta spariscono tutti. Alla fine del primo take ci sediamo, gli dico ciao e lui mi risponde con l’accento di Parma, credevo fossi inglese, no sono greco, ah, bene, noi siamo i Ribelli, Clan Celentano, sei troppo forte, devi venire con noi. Si può fare, dice lui, non ho contratti”. Demetrio sale a bordo: girano due anni su un Ford Transit rosso con la scritta “I Ribelli”, un paio di dischi, il Cantagiro, un Sanremo da esordienti, sempre in tournée: L’Altro mondo di Rimini, il Covo di Santa Margherita, La Rupe Tarpea a Roma. Arriva la canzone della vita: Pugni chiusi, la provano nella palestra di viale Lombardia, la ascoltano Ricky Gianco e Mogol, scrive il testo Luciano Beretta, quello della Via Gluck e di Nessuno mi può giudicare. Rhythm & Blues profondo alla Procol Harum, lei gli ha spezzato il cuore a lui tocca “la notte più nera”, ascoltandola viene da piangere e sospirare. Il pezzo vola in classifica. Dura da allora. I Ribelli invece si sciolgono. Demetrio non si accontenta, saluta il beat. Ascolta free jazz. Coltiva la voce. Fonda con Giulio Capiozzi gli Area, International POPular Group, entra nel giro delle avanguardie musicali, in sintonia con il rumore di fondo che è piazza e politica, underground e fiamme contro lo status quo della musica industriale. Scopre che la libertà vocale dei bambini viene limitata dalla parola, coltiva versi, gorgheggi e acuti. Viaggia alla ricerca delle sonorità rituali delle steppe asiatiche. Diventa amico di John Cage. Sperimenta la diplofonia che è voce doppia e tripla, strumento musicale, fino al punto di “cantare la voce affinché canti sé stessa”. La sua è pura armonia, improvvisazione, rabbia. Disse: “Non cantare equivale a non esistere”. Ma aveva torto. E la prova è quella notte all’Arena di Milano, dov’è stato il suo silenzio a moltiplicargli per sempre la voce e la sua storia.