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 2022  giugno 28 Martedì calendario

Biografia di Raffaele La Capria

Raffaele La Capria (1922-2022). «Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il Corriere della Sera. Eppure l’opera di Raffaele La Capria era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la “Foresta Vergine” capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita “una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme”. Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato. A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Una denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986). Nato il 3 ottobre 1922, era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi “in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso”. Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e ai suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato. Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un “mortorio” da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte» [Carioti, CdS] • «Nel 2003 le opere dello scrittore vengono raccolte in un Meridiano Mondadori, confezionato con molta cura da Silvio Perrella. A chi gli chiedeva che cosa provasse a vedersi catalogato fra i classici rispondeva di aver avuto la stessa reazione di Giorgio Caproni, anche lui insignito di un Meridiano ancora in vita. “Mi vogliono ammazzare”, aveva detto il poeta livornese. “Ma ovviamente fui contentissimo”, aggiungeva La Capria. E poi: “Dopo quel volume ho messo un by-pass e ho scritto quattro libri, L’estro quotidiano, L’amorosa inchiesta, Guappo e altri animali e A cuore aperto. In fondo volevo un’esistenza post-Meridiano. Non mi sento un classico. Forse classico è solo il mio stile”» [Erbani, Rep]. «Uno degli aneddoti che ricordo sempre, perché mi sembra estremamente rivelatore, risale ormai a molti anni fa. Lo avevo accompagnato a un convegno di studiosi di letteratura. Alcuni oratori, tutti accademici di rango, avrebbero letto delle relazioni sull’opera di La Capria. Ne era sinceramente onorato, ed era anche curioso di sapere cosa quegli studiosi avevano visto nella sua opera. A un certo punto, ho notato che armeggiava nervosamente con i comandi dell’apparecchio acustico. Sfruttando l’orecchio più sano, riuscii in qualche modo a chiedergli se sentiva male, e se voleva che lo aiutassi ad alzare il volume dell’apparecchio. “No, semmai funziona troppo bene”, mi rispose con quel malizioso candore degno di Totò che a volte tirava fuori, “sto cercando di abbassarlo!”. Anche le lodi e i riconoscimenti avevano il potere, se protratti, di scocciarlo. È questo il tipo di pensieri con i quali tento di ammansire il mio dolore, di farmene una ragione. Un uomo giusto com’è stato La Capria si è meritato una morte simile alla vita meravigliosa che ha vissuto. Tra poche settimane, il 3 ottobre, avrebbe compiuto cento anni. Negli ultimi tempi, gliene parlavamo come di un traguardo ormai prossimo, quasi visibile. Ma quando si toccava l’argomento, non mi sembrava entusiasta. Come se ci avesse intravisto qualcosa di antipatico, in quella cifra tonda. E soprattutto, come se in lui fosse rimasto inalterato, fino all’ultimo respiro, quello che forse è il più profondo, il più saggio insegnamento dei suoi libri, dal primo all’ultimo: perché si realizzi la pienezza dell’esistenza, è necessario che a quell’esistenza manchi qualcosa, che la misura non venga mai colmata fino all’orlo» [Trevi, CdS].