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 2022  giugno 01 Mercoledì calendario

Biografia di Gianni Meccia

Gianni Meccia, nato a Ferrara il 2 giugno 1931 (91 anni). Cantante. Autore. Compositore. Primo nella storia della musica italiana a essere definito «cantautore» • «L’arrabbiato» • «L’anticonformista» • Canzone più famosa: Il barattolo (1960), arrangiata da Ennio Morricone, che, per registrare il brano, fece costruire appositamente uno scivolo di cemento su cui far rotolare un barattolo (sugli spartiti della canzone si leggevano le seguenti parti: organo, contrabbasso, chitarra, batteria, armonica a bocca, bongos, primo barattolo, secondo barattolo) • Tra i suoi successi come interprete: Odio tutte le vecchie signore (1959), Il pullover (1960), Pissi pissi bau bau (1960), Patatina (1961), Cha cha cha dell’impiccato (1961) • Come paroliere, ha lavorato per cantanti come Mina, Nilla Pizzi, Jimmy Fontana, Rita Pavone, Patty Pravo, Gianni Morandi, Orietta Berti • Tra il 1959 e il 1966 ha interpretato come attore cinque musicarelli (tra cui I ragazzi del Juke-Boxe, Urlatori alla sbarra e Canzoni in… bikini) e un western all’italiana (Djurado, di Giovanni Narzisi) • Diventato, a partire dal 1970, produttore discografico (fondò la Pull, forse in ricordo della canzone Il pullover), fu lui a scoprire e a lanciare i Cugini di Campagna, fu lui a convincere il conduttore Corrado a incidere il suo primo disco (che divenne la sigla della Corrida) • «Ricordate quel Barattolo che “rotola… rotola… rotola… rimbalza qua e là… dove mai finirà?”, una canzone legata ai primi Anni 60, ma anche un significativo episodio della storiografia della canzone “leggera” ma strana; per presentare quel 45 giri di Gianni Meccia si coniò il termine di cantautore, anzi, si era pensato a “cantantautore”, ma il termine non suonava bene e lo si accorciò. Così il Meccia Gianni, con il suo rotolante barattolo, aprì la schiera di chi le canzoni se le scrive e se le canta (e, spesso, se le compra e ascolta rassegnato) da cui poi discese tutto il resto: dalla canzone d’autore a quella da dimenticare subito. “Una bella responsabilità”, ridacchia lui oggi. “Passerò alla storia?”» (Alberto Gedda, Stampa Sera 23/8/1985).
Titoli di testa «Lui dice: “Guardi che non funziona, signorina, se lei non schiaccia quel bottone là a destra. Questo qui è un juke box del nuovo tipo americano”. Lei dice un piccolo meccanico grazie e poi lo guarda, non se ne era accorta, lo aveva al fianco ma non lo aveva notato e adesso lo guarda. Fu in un attimo. Nell’interno del juke box i meccanismi avevano compiuto le loro soffici manovre smistando i dischi di qua e di là come fantolini con delicatezza e decisione, poi il nuovo disco cominciò a girare. Si udì un tintinnio come una campanella di latta. Lui disse: “Il Barattolo! Bene, abbiamo gli stessi gusti allora”. (E rise). Lei tacque. Lui disse: “Mica male quel Gianni Meccia. Ma mi dica, signorina, le piace proprio molto?”. Lei tacque» (Dino Buzzati, La barattola, CdS 9/11/1960).
Vita Madre ferrarese, padre molisano. Molti musicisti in famiglia: il nonno organista, le sorelle insegnano pianoforte. Lui, invece, sogna di fare l’attore. «Avrebbe dovuto fare il commercialista, ma non se la sentiva di passare la vita dietro a una scrivania. Così si presentò a Cinecittà, fu accettato come comparsa ma, evidentemente, le sue capacità di attore non erano tali da farlo notare. Non si scoraggiò. Cominciò a comporre canzoni. Ma erano motivi che sembravano impresentabili. Si chiamavano: Non bisogna mangiare i pedoni, Il tarlo cattivo, Anche i vigili possono scivolare e Odio tutte le vecchie signore. Quando Meccia riuscì a cantare quest’ultima al Musichiere ci furono migliaia di lettere di protesta alla televisione: un successo, per l’inquieto mondo della canzone, dove anche un fiasco può mutarsi in un attimo in un “boom” (V.F., CdS 8/8/1963) • «Non mi sentivo un interprete di canzoni ‘normali’; mi sentivo più ‘attore-interprete’ perciò l’istinto mi faceva scrivere queste cose strane che erano poi come degli sfoghi in musica; era una specie di urlo contro le tante avversità degli inizi». «Io sono veramente modesto, però posso vantarmi di una cosa: questo neologismo ‘cantautore’ che poi è diventato così famoso, nacque proprio per me e da me, con Vincenzo Micocci che è stato un po’ il mio pigmalione. Quando mi presentai da lui, cercai subito di spiegargli che non ero un cantante che cantava e basta; ero un cantante autore; da quel concetto il passo fu breve e venne fuori la parola ‘cantautore’. Perciò mi sento un po’ l’artefice di questa parola oggi diventata di largo uso comune. Ecco, questa è la mia figura in quel periodo. In particolare, certamente seguivo il mio istinto e scrivevo quello che dentro mi dettava il cuore, seguendo una strada personale, quasi infischiandomi di quello che erano le mode del momento: anziché scrivere per esempio C’è una chiesetta amor, io scrivevo II barattolo. E qui, suscitando spesso lo stupore e la meraviglia di molti autori un pochino più anziani che, ricordo ancora, dicevano “…ma che fa ‘sto Meccia qui, cos’è ‘sto barattolo…”». «Rotola, rotola, rotola/ Strada facendo rotola/ Rimbalza qua e là/ Rotola, rotola, rotola/ Come il mio amore inutile/ Dove mai finirà?/ Tratta il mio cuore così/ Come fosse un barattolo/ Lo fa girare qua e là/ Senza nessuna pietà/ Forse neppure lo sa/ Perché lo fa» (ascoltala tutta qui). È il 1960 • Le proteste non tardano ad arrivare. Si diffonde una leggenda metropolitana: Meccia ha un’amica stonatissima, le fa cantare le canzoni in voga e, dalle storpiature di lei, trae idee per nuovi motivati («Ebbene, ti dico: leggermente romanzata, però un po’ corrisponde alla verità»). «Io mi muovevo con assoluta circospezione; non avevo affatto fiducia in queste capacità, anche perché negli anni cinquanta andavano ancora di moda i cantanti tradizionali, quelli all’italiana, come i Consolini, i Villa, Carla Boni» • «“La mia ragazza ha inventato un nuovo gioco: mi cosparge di benzina e mi dà fuoco”. Pronunciate queste atroci parole a voce altissima, l’obeso signore ci guarda con aria di minaccia. Siamo nella Galleria del Corso, la Wall Street della musica leggera italiana. Il signore grasso è un editore che protesta: aveva cinque canzoni, dice, una migliore dell’altra e la giuria del Festival di Sanremo gliele ha rifiutate tutte. Adesso declama i versi delle canzoni promosse perché vorrebbe dimostrare pubblicamente che sono indecorose. È in mezzo alla Galleria, paonazzo e collerico, col pastrano color cammello sbottonato e la cravatta di traverso. La gente si ferma ad osservarlo, qualcuno brontola che deve trattarsi di un pazzerello e che forse è bene chiamare un medico. Ma lui continua: “Tu sei come nelle favole, sei nata sotto un cavolo, sei piccina così, patatina patatì…”. Quando il gruppetto degli spettatori è più folto, improvvisa il suo comizio: “Vogliono la nouvelle vague e gettano nella pattumiera i motivi seri, dolci, appassionati ed educativi come quelli che produco io. Le mie canzoni hanno un’anima. Parlano al cuore, fanno sospirare le mamme e piangere le innamorate. Hanno un’anima le canzoni, chiamiamole così, di questi giovanotti imberbi e provocatori? È mai possibile, e l’avete ascoltato or ora, che si osi istigare al delitto, alla piromania, una fanciulla, raccontandole a suon di musica che dovrebbe cospargere di benzina il fidanzato e appiccargli fuoco? E che cos’è la faccenda del cavolo e della patatina? Insulsaggini. Non c’è più morale, ecco. Quel che manca in Italia è una censura sulle canzoni!”. Fra i compositori moderni e quelli all’antica vi è ormai un abisso. Nelle periferie e nelle balere popolari i motivi sentimentali hanno ancora un poco di successo: ma dai juke-boxes sono scomparse le stornellate, le penose vicende delle mamme che aspettano, le storie strazianti degli innamorati sedotti e lasciati, i monologhi dei cuori infranti. Il pubblico non li vuol più sentire. Gli industriali dei dischi sono da tempo corsi ai ripari ed hanno subito arruolato i giovani, i giovanissimi compositori. Le loro musiche sotto certi rispetti sono davvero nuove, persino fresche, talune addirittura con bagliori di intelligenza, accompagnate da parole che nessuno, prima, aveva osato infilare nelle canzonette: dinamitarde (l’incendio del fidanzato in Benzina e cerini), antipatiche (una, entrata fra i classici, proclama: Odio le vecchie signore), irragionevoli (Chi è quell’uomo felice? Sono io che mi rotolo nelle pozzanghere) e tutte un poco anticonformiste. L’anticonformismo ha reso quattrini: gli affari che parevano in declino hanno avuto una bella impennata ed ora salgono. È il “boom” della nouvelle vague. Durerà? Chi può dirlo! Del resto gli industriali hanno sempre una moda di rincalzo: via l’uno, arriva l’altra. Non si scherza con le canzoni, come non si scherza con i miliardi» (Gino Nebiolo, Sta 14/1/1961).
Lussi Dopo il successo di Odio le vecchie signore, con i primi soldi guadagnati, prese a girare in doppiopetto e si comprò una Maserati azzurrina (targata Campobasso).
Guai Il 16 aprile 1963, Meccia, residente a Roma, fu denunciato ai carabinieri di Codigoro, nella bassa ferrarese, da tale Turiddo Braga, vigile urbano, di anni 32, che lo accusava di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Dal Corriere d’Informazione del 17 aprile sera: «Mentre stava transitando a bordo di una veloce auto sportiva biposto, Gianni Meccia non avrebbe osservato, a quanto risulta dalla denuncia, il segnale di “stop”. Il vigile urbano, rilevata l’infrazione, ordinava al Meccia di fermarsi e avvicinatosi all’auto elevava la contravvenzione. Il cantante, montato su tutte le furie, è sceso dalla macchina, prendendo per i risvolti della giacca il vigile, e apostrofandolo con tono ritenuto irriguardoso, lo minacciava di fargli perdere il posto, in virtù di certe sue aderenze nella capitale. “Lei non sa chi sono io. Impari a fare il suo mestiere” sarebbero le frasi pronunciate dal cantante. “Ho molte amicizie a Roma e se mi fa pagare la multa, quella divisa non la terrà sulle spalle ancora per molto”. Dopo di che il cantautore si è allontanato a tutta velocità. Rilevato il numero della targa, il vigile urbano ha compilato il verbale…» • Il 5 ottobre la prima sessione penale del tribunale di Ferrara lo condannò a otto mesi di reclusione con la condizionale e al pagamento delle spese processuali (Meccia, al processo, non si presentò nemmeno, limitandosi a inviare il proprio avvocato).
Amori La mattina del 18 dicembre 1967, nella chiesa dell’aeroporto di Fiumicino, sposò la signorina Stefania Pirovine. Cerimonia molto semplice, officiata dal parroco, mons. Angelo Savelli. Genitori di lui assenti. Testimoni: Alberto Pirovine, fratello della sposa, e Leonello Bontempi. Meccia, molto nervoso, non volle dire assolutamente nulla ai cronisti e cacciò in malo modo un fotografo che si accingeva a riprendere alcune fotografie.
Figli Ha una figlia e una nipotina.
Zecchino Nel 1971 partecipò alla 13ª edizione dello Zecchino d’Oro con Il Sorpassista (…«Pe! Pe! Pe! c’è una tromba dietro me/ Pe! Pe! Pe! mamma mia guarda chi c’è/ Pista pista pista sta arrivando il sorpassista»…).
Cugini di campagna «Il gruppo come nacque? “Mi convinse mio fratello. Un giorno andammo a cantare in un ristorante dove a cena c’erano Arbore e Boncompagni, i produttori Bruno Zambrini e Gianni Meccia. Cominciammo a cantare Nella vecchia fattoria a cappella con le vocine, il giorno dopo ci fecero registrare Il ballo di Peppe come sigla di Alto gradimento; speravamo in una cosa rock, ma andava bene lo stesso. Il nostro gruppo si chiamava La fine del mondo, ma ce lo fecero cambiare nei Cugini di Campagna”. Perché non I gemelli di Campagna, visto che ne siete l’anima? “Perché eravamo due fratelli gemelli e due amici. Per ciò per la proprietà logica delle proporzioni, abbassi uno, alzi l’altro, alla fine diventi quattro cugini”» (Ivano Michetti, chitarrista e voce del gruppo, Renato Franco, CdS 4/1/2022).
Curiosità Grande amante della natura • Gli piace viaggiare • Detesta la routine • Indirizzo dei suoi a Ferrara: via Carlo Mayr 170 • All’inizio, lavorava assieme alla mamma: lui scriveva la musica, lei le parole • Nel 1967 partecipò, assieme, tra gli altri, a Lucio Dalla, Gigliola Cinquetti, Caterina Caselli, Vittorio Vinciguerra, Toni Santagata, etc., a una «crociera beat» partita da Genova e diretta a Londra, «la Mecca ye-ye» • Fece una versione italiana di un pezzo dei Beach Boys, She knows me too well, diventata Adesso che hai parlato • Assieme a Bruno Zamparini ha composto la sigla per lo sceneggiato Qui squadra mobile (Rai, 1973) • A cantare La mia ragazza ha inventato un nuovo gioco: mi cosparge di benzina e mi dà fuoco era Giorgo Gaber • «Sono uno spontaneo, quando faccio una cosa, la faccio: se è buona è buona, altrimenti chi se ne importa. Nonostante, essendo del segno dei Gemelli, c’è sempre l’altro Gianni Meccia che mi rimprovera, che mi sprona. Lo sento dire “...ma come, uno che è partito come te, hai buttato via una carriera, potevi fare molto di più...”. L’altro invece mi dice “…ma no, stai benissimo così, non sei stressato, non sei pieno di acredine per quello che magari poteva essere e non è stato…”. E quindi sono contento così» • A Ferrara, da qualche parte, conservavano ancora le locandine, i divertenti testi, i bozzetti dei costumi ed alcune fotografie di momenti di scena di quando, giovanissimo, recitava nelle compagnie universitarie della città.
Titoli di coda «Per la seconda volta lei girò gli occhi per guardarlo con la massima rapidità possibile. Lui era là che la fissava dall’alto, con meravigliosa padronanza. Lei ritrasse subito gli sguardi. Lui disse: “Scherzavo, sa? Sinceramente, questo Barattolo, io lo trovavo piuttosto una scemenza. Ma adesso, dopo che lei lo ha scelto… A lei piace molto, vero?” “Non so” le sfuggì detto. Lui: “E allora perché l’ha scelto?” “Non so” le sfuggì detto. “Io invece so” lui disse “perché il barattolo le piace immensamente”. “Perché?” le sfuggì detto. “Me ne vado, signorina” egli disse. “Le do fastidio, me ne accorgo, semplicemente mi piaceva ascoltare”. “Se è solo per questo” le sfuggì dettò “resti pure”. Lui tacque. Il disco era alla fine, la campanella di latta si perse in lontananza. Nell’interno del juke box ci fu ancora un irresistibile rimescolio di meccanismi, poi il disco del Barattolo fu infilato nella sua giusta sede e tutto ritornò fermo» (Buzzati).