6 giugno 2022
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Biografia di James Francis Ivory
James Francis Ivory, nato a Berkeley il 7 giugno 1928 (94 anni). Regista e sceneggiatore statunitense. Ha realizzato poco più di venti film in quasi sessanta anni di carriera, specializzandosi negli adattamenti e vincendo un Oscar per la sceneggiatura di Call me by your name di Luca Guadagnino.
Titoli di testa «Un regista non è un creatore ma un’ostetrica».
Vita È stato adottato. Il suo nome era Richard Jerome Hazen: «E questa è l’unica cosa che so di quei primi giorni di vita» [Solid Ivory, Corsair, 2007] • Cresce a Klamath Falls in Oregon dove il padre, di origine irlandese, possiede una segheria [Comingsoon.it] • Frequenta una scuola cattolica: «Mio padre era cattolico ma non il tipo di cattolico che andava a fare la comunione ogni domenica. Era come il presidente Kennedy. Sai quelli che vanno a messa ogni domenica ma fanno la comunione solo a Natale e a Pasqua. E se eri cattolico, la chiesa si assicurava che frequentassi una scuola cattolica, se la tua città ne aveva una. La nostra città ne aveva una, era piuttosto grande. Quindi sono andato in quella scuola, fino alla terza media. Poi ci siamo trasferiti a Palm Springs, perché mia madre aveva un brutto problema di sinusite, e così abbiamo cercato un clima invernale più mite. Solo a quel punto sono stato in grado di andare in una scuola pubblica, che ho adorato. Però ricordo che abbiamo dovuto chiedere il permesso al prete per andare al liceo pubblico. Serviva il suo permesso. Mio padre l’ha ottenuto con la scusa del programma sportivo, che non c’era nella scuola cattolica. In realtà non avevo interesse di alcun tipo per il programma sportivo. Ma per la prima volta mi è stato permesso di andare al liceo pubblico» [Lucia Senesi, Rivistastudio] • «Mia madre non era credente, e in effetti nemmeno mia nonna lo era. Anzi credo che mia nonna fosse atea. Sai, è difficile dire se mia madre mi abbia inspirato di più. Certamente è sempre stata molto solidale con tutto quello che volevo fare. Anche mio padre lo era. Quando me ne sono andato, per esempio, mi ha sempre supportato. Ha sempre sostenuto la mia decisione di fare film» [ibid.] • Da bambino girava in limousine insieme a sua madre: «Credo che questo privilegio mi abbia dato l’opportunità di vedere il mondo in maniera diversa: un angolo certamente privilegiato, ma proprio per questo anomalo e, credo, interessante» [Antonio Monda, Robinson] • Nel 1950 è a Parigi e viene per la prima volta in Italia «Salii su un treno per riuscire a vedere almeno Venezia. Non dimenticherò la prima volta che la vidi, ne fui folgorato e decisi che nella città lagunare avrei girato il mio film d’esordio, un desiderio che coronai tre anni dopo, quando con fatica racimolai i soldi per girare un piccolo documentario» [Michele Diomà, Il Fatto] • Dopo Venezia voleva andare a Roma: «Ma avevo un piccolo problema pratico, mi erano rimasti in tasca dieci dollari. Sono passati più di 65 anni da quel giorno, ma ricordo perfettamente il mio stato d’animo, da una parte ero spinto dalla mia situazione economica a mettere fine a quel viaggio in Italia e chiamare mio padre in America perché mi facesse il biglietto per rientrare, dall’altra avevo una fortissima voglia di vedere la Caput Mundi. Un po’ per incoscienza dovuta alla mia giovane età, un po’ per fame di avventura, optai per la seconda soluzione. Non appena arrivai alla Stazione Termini corsi in un’American Express con la speranza di trovare un regalo da parte di mio padre, che generosamente senza dirmelo mi fece trovare sul conto cento dollari. Beh, mi sentii l’uomo più ricco del mondo. Iniziai a girovagare per Roma e a ogni passo vedevo palazzi, piazze e monumenti che mi lasciavano senza fiato. Ricordo quel periodo come bellissimo e non volevo più andarmene, rimasi infatti a Roma per circa tre mesi. E devo confidarvi una cosa: proprio a Roma c’è il monumento che ancora oggi, che ho girato un po’ il mondo, considero il più bello in assoluto. Il Pantheon [ibid.] • A Venezia gira il suo primo cortometraggio come saggio di laurea all’Università della California: «Con una cinepresa 16 millimetri, per filmare i mosaici di San Marco, i capolavori dell’Accademia, i Veronese, i Tintoretto, i Carpaccio. Ero così ingenuo, allora, da pensare che avrei potuto raccontare la storia di Venezia attraverso gli artisti che l’hanno amata, fino alla Venezia di Whistler, giù giù attraverso i secoli, fino a Steinberg». Il film fu girato a più riprese perché «non sapevo nulla di tecnica, impostai la velocità della pellicola sbagliata e così quando tornato a casa rividi le immagini girate, tutti si muovevano veloci sui ponti e nelle calli, come in una vecchia comica». Il primo contrattempo di una carriera lungo la quale ha imparato a trasformare gli ostacoli in opportunità: «Quel cortometraggio lo completai quando facevo il servizio militare in Germania: presi una licenza, mi feci mandare la cinepresa da casa, impostai finalmente la velocità giusta e riuscii a ottenere le immagini che volevo» [Matteo Persivale, CdS]. Il Titolo è Venice: Themes and Variations • In Germania ci va durante la guerra di Corea, con gli Army Special Services • Il secondo film lo gira in India The Sword and the Flute (1959), pellicola che ottiene ottime critiche. Durante la proiezione del film a New York, il regista incontra Ismail Merchant, un giovane indiano con cui fonda nel 1961 una casa di produzione, la Merchant-Ivory Productions. «Ai due si unisce anche la scrittrice tedesca Ruth Prawer Jhabvala e insieme cominciano a realizzare una serie di film, molti dei quali ambientati in India e imperniati sul confronto fra civiltà diverse - Il capofamiglia (1963), Shakespeare Wallah (1965, presentato al Festival di Berlino) - o tratti da romanzi di scrittori inglesi come Henry James e E.M. Foster - Gli Europei (1979), I Bostoniani (1984)» [comingsoon.it] • Su I Bostoniani: «Il personaggio di Olive non è stato accettato dalla comunità lesbica internazionale, anzi, è stato molto contestato soprattutto dalle femministe. Mi ricordo che una volta, in un ascensore a New York, ho assistito a una curiosa conversazione. Un gruppo di ragazze lesbiche non sapevano chi io fossi e commentavano negativamente il fatto che nel mio film una lesbica andasse con un uomo. Ma una di loro disse che essendo Christopher Reeve si poteva fare un’eccezione!» [Roberto Schinardi, gay.it] • Al trio Ivory-Merchant- Prawer Jhabvala si aggiunge Richard Robbins, la quarta ruota di un carro che fila già splendidamente a tre, responsabile per tutte le colonne sonore da Gli europei in poi. Presentato al Festival di Cannes nel 1979, questo film ottiene il riconoscimento da parte del grande pubblico. Dice Ivory: «Ho la sensazione che è qualcosa da vedere più che da ascoltare. Ciò che si vede è l’aspetto principale; ciò che si ascolta è l’ornamento» [1aait.com] • A New York, negli anni Ottanta, conosce Federico Fellini: «Eravamo invitati a un party e a un certo punto sua moglie, Giulietta Masina, accettò la sfida di preparare un piatto di spaghetti per tutti gli invitati. Diventò la star della serata. Dopo cena scoprii che Giulietta oltre a essere una eccellente cuoca sapeva leggere le carte, così iniziò a rivelare il futuro a ciascuno di noi» [a Valerio Cappelli, CdS] • Del 1986 Camera con vista: «Durante le riprese non vivevo a Firenze ma a Fiesole, ho mantenuto ottimi rapporti con i collaboratori di quel film e abbiamo lavorato ancora insieme. Ero consapevole che quel film sarebbe diventato il simbolo di una città e quindi ho provato a immaginare al meglio sotto quale luce rappresentare Firenze». Otto nomination agli Oscar, ne vince tre. Incassa sessanta milioni di dollari per un budget di tre • Nel 1987 vince il Leone d’Argento alla 44esima Mostra del Cinema di Venezia con Maurice. Quando avete girato Maurice volevate prendere una posizione contro l’omofobia? «Buon dio, no. Non che tenessimo nascosto il nostro rapporto, ma esporsi direttamente sarebbe stato da suicidi. Hollywood è talmente puritana ancora oggi, si figuri negli anni Ottanta. Il film però è stato accolto bene. Tranne in Inghilterra, che aveva già snobbato il libro di Edward Forster da cui era tratto. Gli inglesi sono ancora molto indietro, quasi come voi italiani che bocciate una legge contro l’omofobia. Non che ciò meravigli. E comunque rispetto al passato le cose sono migliorate. Non avrei mai voluto vivere ai tempi di Casa Howard o Camera con vista. Se non eri ricco, la vita era un inferno. Se poi eri pure omosessuale non ne parliamo» [intervistemadyur.blogspot.com] • Nel 1990 gira Mr. e Mrs Bridges, che lui stesso definisce il film che lo rispecchia di più: «Racconta situazioni e luoghi che ho conosciuto da vicino ed è molto autobiografico. Paul Newman, Joanne Woodward e io eravamo i più anziani sul set, e nessun altro sembrava sapere nulla di quel mondo. È un film al quale sono particolarmente legato anche perché è stato tra i pochi nei quali ho potuto fare qualche settimana di prove prima di girare» [Monda, cit.] • «Nel 1992 la consacrazione definitiva con Casa Howard, il punto di arrivo dell’inossidabile trio, un capolavoro scaturito grazie alla loro collaborazione decennale, un vero lavoro d’equipe candidato a nove Oscar di cui tre vinti: migliore sceneggiatura non originale alla solita Ruth Prawer Jhabvala, migliore attrice a Emma Thompson e migliori scenografie a Luciana Arrighi e a Ian Whitaker. Probabilmente il migliore film di Ivory. Al riguardo una curiosità: il budget di otto milioni di dollari è stato raccolto dal produttore Ismail Merchant in tempi diversi durante la lavorazione. Con alle spalle il successo planetario di Casa Howard la Merchant-Ivory (così si è sempre chiamata la casa di produzione) realizza Quel che resta del giorno, pellicola stilisticamente lussuosa per il quale gli autori, per la ricostruzione documentaristica della forma e delle abitudini dell’epoca hanno ingaggiato, come consulente, un maggiordomo in pensione della regina Elisabetta e usato come set quattro ville inglesi per filmare gli interni-esterni della dimora descritta superbamente nel film. Nelle sale è di nuovo successo internazionale, per quella che a tutt’oggi è la pellicola più affascinante dell’autore americano» [1aait.com] • I suoi maestri sono Jean Renoir e Satyajit Ray: «Mi hanno influenzato enormemente, anche se in maniera intangibile. Incontrando Renoir ho capito perché era tra i pochi maestri del passato venerato dai registi della Nouvelle Vague, mentre ho voluto conoscere Ray dopo aver visto la trilogia di Apu. Ero in India e trovai il suo numero sull’elenco telefonico: fu gentilissimo e mi invitò a trovarlo sul set di Tre figlie. All’epoca avevo realizzato soltanto documentari e rimasi affascinato da come dirigeva gli attori. Capii subito che la mia strada era quella del cinema di finzione e ancora adesso so che quella grande emozione ha forgiato tutto il mio lavoro, così diverso da ogni punto di vista. La vera arte riesce a superare ogni barriera culturale» [Monda, cit.] • Negli anni 90 gira Jefferson in Paris (1995), Surviving Picasso (1996), La figlia di un soldato non piange mai (1998). Seguono The Golden Bowl (2001), Le Divorce - Americane a Parigi (2003), La contessa bianca (The White Countess) (2005) e Quella sera dorata (2009) • Nel 2018 vince l’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale per Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, diventando di fatto la persona più anziana in assoluto a vincere tale premio • Con Luca Guadagnino sta vivendo un momento di crisi dopo un lungo periodo di amicizia e collaborazione: «Siamo stati amici», mi racconta in una pausa della promozione del libro, «ma poi qualche cosa non ha funzionato proprio mentre dovevamo sigillare la nostra amicizia dirigendo insieme Call me by your name». Lei scrive: “Quando ho consegnato la sceneggiatura, è stata accettata senza richieste di cambiamenti, e i produttori hanno trovato in breve i soldi per finanziare il film. L’ultima volta che ho visto Luca a New York, scherzavamo su quello che sarebbe potuto accadere se avessimo avuto un disaccordo. Poi all’improvviso sono stato scaricato senza che nessuno mi dicesse qualcosa”. Cosa ritiene sia successo? «Sul momento sono rimasto male, ma penso che sia stata una decisione della produttrice francese, che si deve esser chiesta “e se poi litigano? Meglio evitare problemi”. Ha puntato sul più giovane. Può essere che anche Luca lo abbia pensato, il risultato è che ha diretto da solo». Ne avete più parlato? «Ci siamo visti a Cannes quando hanno presentato la versione restaurata di Casa Howard. Diciamo che preferisco non dimenticare le cose belle della nostra amicizia» [Monda, cit.] • Nel 2019 interpreta sé stesso in Dance Again with Me Heywood!, per la regia di Michele Diomà • Sulla soglia dei 94 anni poi, James Ivory ha consegnato alle stampe la propria autobiografia, intitolata Solid Ivory. Come fa ad avere tanta energia? «Il cinema è l’unica cosa che so fare. Lavorare mi fa sentire Ismail più vicino, con un misto di dolore e piacere a cui non riesco a sottrarmi. Poi lei ha ragione e io sono solo un dinosauro con un ego smisurato. Troppo vecchio per tutto. Ricoperto da una patina di antico, come i miei film» [intervistemadyur].
Curiosità Ivory trascorre ancora ogni agosto in Oregon, nella casa che i suoi genitori hanno comprato quando era un ragazzo. Ha anche una villa di 19 stanze nella valle dell’Hudson, che acquistò nel 1975, nella cui minuscola cucina Merchant una volta cucinò il suo famoso curry di agnello, sul cui prato attori come Helena Bonham Carter e Gwyneth Paltrow facevano un picnic, e dove Vanessa Redgrave una volta dava letture di Cechov [Clark Skaggs, glreview].
Amori Nella sua autobiografia Ivory ricorda quella volta alla scuola elementare di Klamath Falls, Oregon, in cui vide un compagno di giochi infilare il suo «membro cherubico (e non circonciso)» nella terra di una collina a scopo dimostrativo di come funzionava il sesso degli adulti [RivistaStudio] • A sette anni la prima reciproca fellatio con il suo migliore amico fu interrotta da sua madre • Al liceo, all’università, alla scuola di specializzazione ha diversi amori clandestini con i suoi compagni • Poi, della storia con lo scrittore Bruce Chatwin, ricorda ancora «l’odore rancido del suo pene quando non si faceva il bagno da diversi giorni» [Solid Ivory, cit.] • Ma il vero amore arriva con il produttore Ismail Merchant, morto nel 2005. Con lui ha vissuto una relazione sentimentale aperta durata 45 anni. Come si va avanti dopo una perdita così grande? «In qualche modo si fa. Io sapevo di dover portare a termine ciò che avevamo cominciato. Quando è morto stavamo finendo di girare La contessa bianca. E poi c’era quest’altro film The City of Your Final Destination (in italiano Quella sera dorata). Buttarmi a capofitto nel lavoro mi ha aiutato a scendere a patti col dolore. Ma è stato anche un inferno. Non avevo mai prodotto nulla prima di allora, non sapevo cosa significasse. Era Ismail che si occupava di tutto. Era così preciso e dedicato. Ora che non c’è più mi rendo conto di quanto facesse per me, in tutti gli aspetti della nostra vita insieme. Scoprirlo è stato uno shock. E poi mi mancano i suoi manicaretti. Lui amava cucinare. Anche se per uno della mia età certi piatti pieni di spezie sono un veleno…» [intervistemadyur] • Durante la sua relazione ha avuto diversi rapporti occasionali: «Sono arrivato a un’età in cui mi posso permettere di raccontare quello che mi fa piacere e non nascondere nulla». E lo fa nel suo mémoir. Con tanto di foto [Monda, cit] •
Titoli di coda «Come regista non sono attratto dall’emisfero omosessuale per sé stesso. A me interessano i sentimenti e le passioni».