23 giugno 2022
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Biografia di Vittorio Storaro
Vittorio Storaro, nato a Roma il 24 giugno 1940 (82 anni). Direttore della fotografia. Tre volte premio Oscar: Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), Reds (Warren Beatty, 1981), L’ultimo imperatore (Bernardo Bertolucci, 1987), nomination anche per Dick Tracy (Beatty, 1990). Tre Nastri d’argento: Il tè nel deserto (Bertolucci 1990), Piccolo Buddha (Bertolucci 1993), Tango (Carlos Saura 1998). Nel 2008 Nastro d’argento alla carriera e nel 2018 Nastro Cinema Internazionale per La ruota delle meraviglie. «“Direttore della fotografia è una definizione sbagliata. Doppiamente: c’è un solo direttore al cinema ed è il regista; fotografia, poi, è espressione di una sola immagine, si dovrebbe parlare di cinematografia, fotografia in movimento”. Come dobbiamo chiamarla? “Cinematografo, all’americana cinematographer. Nei miei film sta scritto: Cinematografia di Vittorio Storaro”» (a Federico Pontiggia).
Vita «Non sono stato io a scegliere, mio padre ha intrapreso questa strada per me. Ha mai visto Nuovo cinema paradiso di Tornatore? Io ero quel bambino, mio padre era proiezionista della Lux Film e io ogni tanto andavo con lui. Avevo cinque, sette anni e vedevo sfilare queste immagini mute: nella cabina di proiezione non arriva il sonoro. Mio padre, proiettando quelle pellicole per tutta la sua vita, avrà giustamente sognato di prendere parte a quel mondo, ma lui non poteva più farlo, quindi ha spinto me a studiare fotografia e poi cinema. Un giorno torna a casa con un proiettore dismesso della Lux, ho ancora il ricordo vivido di me e mio fratello che dipingiamo di bianco una parete in giardino, per improvvisare uno schermo. Le scene sfocate e senza suono che sfilano, le emozioni che provammo tutti, quella serata è uno dei miei primi ricordi: Charlie Chaplin ed il suo Luci della città. Momenti indelebili, muti. Per me il cinema era il linguaggio delle immagini, e dovrebbe essere così ancora oggi» (a Viviana Di Falco) • «Verso i 13-14 anni cominciai a fare pratica presso un laboratorio fotografico, nel pomeriggio, dopo la scuola. La mia famiglia, che era un po’ limitata nei mezzi, non mi avrebbe dato la possibilità di studiare fotografia in seguito, e quindi dovevo darmi da fare per mantenermi gli studi da solo. Ricordo che per me la fotografia era mistero, la parola non capivo neanche bene cosa fosse. In questo studio fotografico dove lavoravo come aiutante cominciai a fare le prime bellissime cose per penetrare il mistero, iniziando per esempio a lavare le bacinelle dello sviluppo stampa» • «Ho studiato dapprima fotografia, poi sono stato uno degli allievi più giovani del Centro Sperimentale di Cinematografia e ho debuttato a soli 21 anni come operatore. Ho rifiutato di occuparmi della fotografia finché non mi sono sentito pronto e ciò è accaduto all’età di 27 anni» • «Ricorda quando incontrò Bernardo Bertolucci per la prima volta? “Dopo aver lavorato con Marco Scarpelli, mi fermai. Decisi di tornare a studiare: gli anni del Centro Sperimentale non bastavano, ero troppo giovane. Fu Camillo Balzoni a convincermi che non potevo aspettare Scarpelli, che era importante che tornassi a incontrare le persone. Mi disse di andare con lui, e di ripartire da capo”. E Bertolucci? “Sono andato a Parma, come mi aveva detto Balzoni, e lì ho conosciuto Bernardo. Sono rimasto sconvolto dal modo in cui scriveva il film con la macchina da presa. Non girava finché non intuiva il giusto movimento e il giusto spazio. E io mi meravigliavo. Perché non c’era la ricerca di un’immagine particolare, cosa a cui ero abituato. Ma doveva esserci una visione poetica rispetto alla storia”. La cambiò quell’incontro? “Quando ho ricominciato a lavorare con Scarpelli, sono stato molto più cosciente. Ho rifiutato le offerte che mi venivano fatte. E ho accettato solo quando mi sono sentito pronto: con Franco Rossi, in Giovinezza, giovinezza, uno dei film più belli della mia vita. Quando ho finito, mi ha chiamato Bertolucci. La prima cosa che mi ha chiesto è stata: “Vittorio, ti ricordi di me?”. È cominciato tutto così» (a Gianmaria Tammaro) • «Ha esordito nel 1968 con Giovinezza, giovinezza: il destino nel titolo? “Allora mi esprimevo con la tecnologia, ma mi mancava la conoscenza. Lo capii entrando in chiesa, San Luigi dei Francesi a Roma: Michelangelo Merisi da Caravaggio, il ciclo di San Matteo, impazzii. Capii quanto fossi ignorante, e mi misi a studiare”. Chi era Bertolucci? “La psicanalisi gli facilitò una grande intuizione: sottrarsi all’ombra proiettata dal padre Attilio e, complice l’amico Pasolini e i film d’arte visti al cineclub di Parma, esprimersi nella poesia con la macchina da presa anziché la penna”. E venne Il conformista. “Coppola lo vide a New York e ne rimase scioccato: all’epoca si pensava che il colore fosse solo per commedie, western e musical, noi dimostrammo quanto si confacesse all’oscurità richiesta dal dramma”. Coppola le cambiò la vita. “Volle me, nonostante il mio inglese piccino, per Apocalypse Now. Mi chiese di tenere fede a Conrad e a distanza i telegiornali: un grande spettacolo surrealista”» (a Federico Pontiggia) • Apocalypse Now fu il suo primo impegno all’estero, «dove mi ero sempre rifiutato di andare (mi avevano offerto Il grande Gatsby, tra gli altri). Coppola mi disse “leggi Cuore di tenebra”: in Conrad ho trovato la chiave per tradurre in conflitto visivo un conflitto interiore, etico e di civiltà. Ma non sarei arrivato a questo risultato senza il cammino precedente» • «Bertolucci subì attacchi per la scena del burro in Ultimo tango a Parigi. “Un anno fa mi chiamano delle persone: Hai visto che ha combinato il tuo amico Bernardo?, Cosa?. Ha incitato Brando a stuprare davvero in scena Maria Schneider”. E lei? “Ho risposto e rispondo che non è possibile: io ero lì, e quella sequenza è nel copione: tutti sapevano”. Compresa la Schneider. “Consapevole di quel tipo di percorso e ricordo esattamente quella mattina, ogni attimo da quando sono arrivato per preparare le luci del set”. Un giorno particolare… “Perché Brando preferiva una sola inquadratura, non amava ripetere due volte la scena con differenti angolature; quindi Bernardo puntava la cinepresa sui due attori, mentre la secondaria, con il primo piano di lei, era sulle mie spalle. Ero a un metro e mezzo da loro. E Marlon non si è mai sbottonato i pantaloni”. Recitazione pura. “Se crediamo a tutto quello che vediamo sullo schermo, allora Brando è morto su un terrazzo di Parigi nel 1972”» (ad Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo nel 2019) • «Storaro e Bertolucci hanno condiviso trent’anni di viaggio: “Mi manca il fratello. Siamo cresciuti insieme, lui 22 anni e io 23, cercando di realizzare noi stessi. Mi pare che ci siamo riusciti”. Dopo Il piccolo Buddha le loro strade si sono divise: “Bernardo mi disse ‘non so perché ma sento che devo proseguire da solo il mio percorso’. Ma non ho mai abbandonato i nostri film, ho continuato a curarli. Anche se fisicamente non è qui, Bernardo mi accompagna ogni giorno, rullo dopo rullo, a Cinecittà. Rivivo i nostri giorni insieme”. L’ultimo sodalizio è quello con Woody Allen, una collaborazione giunta al quarto film. “Dopo la separazione da Bernardo ci sono stati progetti difficili e un momento in cui ho pensato di fermarmi. È arrivata allora la chiamata di Woody. Ma io non mi riconoscevo in tutti i sui film e non sapevo se avrei trovato la giusta immagine, così chiesi di leggere il copione. Mi ha mandato copione e un biglietto, ‘Vittorio non ti preoccupare, se non ti senti nel mood aspettiamo un altro film’”. Era Cafè Society. “Ho puntato sulla dualità tra personaggi, storie, visioni, dialoghi. Studiato fotografie e dipinti della comunità ebraica a New York nel ’35 e la visione hollywoodiana del ’40. Volo da Woody, parliamo tre ore. Lui ama il bianco e nero, è passato al colore ma non lo capisce. Gli mostro il lavoro e lui: ‘La tua visione raffigura esattamente ciò che ho scritto’”. Ai tempi di La ruota delle meraviglie, racconta Storaro, “ero di nuovo in difficoltà, bella sceneggiatura ma scene di 10 pagine ambientate in una cucina, in uno studiolo. Lui mi dice ‘non preoccuparti, vieni a fare i sopralluoghi’. Vado a Coney Island, che non conoscevo, e scopro che il film è dentro un parco divertimenti, finestre di fantasia dei personaggi, sono impazzito dalla gioia. Ho parlato con Woody della fisiologia dei colori, di come ciascuno influisca non solo sul nostro occhio ma anche sul battito del cuore, il respiro, il metabolismo, l’emozione. Woody mi dice ‘è perfetto per il mio film, per le emozioni tra i personaggi che vibrano in modo diverso’. Così lavoriamo con Woody”» (ad Arianna Finos) • Il suo è «un pensiero artistico che si alimenta di molteplici riferimenti pittorici. Pellizza da Volpedo per Novecento, Francis Bacon per Ultimo tango a Parigi o Magritte per Il conformista. Spiega che la Luce non è una sola, sono tante. Una gamma infinita “che non è soltanto il ‘giorno’ e la ‘notte’ indicati nelle sceneggiature. La luce naturale e quella artificiale, l’ombra e la penombra, l’alba e il tramonto, il sole e la luna. E ognuna racconta una storia, esprime un concetto o un’emozione, scava nell’inconscio”» (Paolo D’Agostini) • Ha lavorato anche per la televisione, come nel Caravaggio visto nel 2007 (regia di Angelo Longoni): «Mai visto una cosa simile. Sembra di entrare nei quadri, di respirare la drammaticità dei contrasti, di essere catturati da quel gioco di contrapposizioni. Storaro compie un esercizio di bravura, ci regala un saggio che entrerà in tutti i corsi sulla fotografia» (Aldo Grasso) • «Ha lavorato anche in teatro. “Con Ronconi volevo studiare le immagini senza filtri, volevo capire se i vari passaggi necessari alla pellicola, alterano o meno il mio lavoro”. Alla fine… “I filtri completano la mia espressione, sono parte del lavoro; però uno dei piaceri più grandi è stato illuminare il Campidoglio in occasione dei Mondiali del ’90, e pochi anni fa i Fori Imperiali, con 35mila persone ad attendere”» (ad Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo) • È stato il più giovane a ricevere l’American Society of Cinematographers Lifetime Achievement Award e, dopo Sven Nykvist, l’unico premiato che non fosse cittadino americano • Ha ideato il sistema di ripresa Univisium, a 35 mm con la pellicola a tre perforazioni, e una composiz. 1:2 ritenendolo adatto allo stesso tempo sia per il cinema che per la televisione, nell’era digitale. Sistema che lui ha utilizzato per la prima volta nel 2000 per le riprese della miniserie tv Dune • Insignito nel 2020 del Nastro d’Oro, nello stesso anno gli è stata dedicata la mostra Vittorio Storaro: scrivere con la luce, allestita al Palazzo Merulana di Roma.
Famiglia Sposato con Tonia Cafolla, tre figli (Fabrizio, Giovanni, Francesca) • Vive in una villa in un complesso residenziale nel sobborgo romano di Frattocchie. «La lunga conversazione che precede ha luogo in una dépendance della villa, nel regno personale di Storaro, uno studio tutto in legno a forma ottagonale con al centro una tavola rotonda. Ambiente, ricercato ma non sfarzoso, che dice parecchio della sua ricerca di ordine esteriore e interiore. L’ispirazione viene dalla Biblioteca di Celso a Efeso, la concezione è di Mario Ceroli, la lavorazione a cura dei suoi artigiani. Tutto, ma proprio tutto intorno al padrone di casa trasuda un senso di conquista e di volontà, di cui fa parte anche l’idea di una famiglia che gioca compatta, stretta intorno al suo capo» (Paolo D’Agostini).