Anteprima, 31 maggio 2022
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Biografia di Boris Pahor
Boris Pahor (1913-2022). Scrittore sloveno. «Nato a Trieste da suddito dell’Impero austro-ungarico, Pahor si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia. Nello stesso periodo era sopravvissuto al flagello dell’influenza detta Spagnola. E a nemmeno sette anni, nel luglio del 1920, aveva assistito appunto al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene, dato alle fiamme dagli squadristi dello spietato gerarca Francesco Giunta. Subito dopo a Pahor era stata sottratta la lingua madre, perché il fascismo aveva chiuso d’imperio le scuole slave e costretto i loro alunni a frequentare quelle italiane: un autentico trauma. E suo padre, impiegato pubblico, aveva perso il posto di lavoro in quanto aveva rifiutato il trasferimento in Sicilia: uno dei tanti tipi di angherie, spesso anche violente, cui la popolazione croata e slovena fu sottoposta dal regime di Benito Mussolini, che ne voleva estirpare l’identità. Vennero poi per Boris gli studi nel seminario cattolico di Capodistria, istituzione almeno in parte sottratta alle ingerenze brutali dal fascismo. Una vita all’insegna della doppiezza: fingersi italiano in pubblico e coltivare la lingua e la cultura d’origine di nascosto, assieme ad altri giovani come lui. Quindi l’addio alla prospettiva del sacerdozio e il servizio militare durante la guerra, prima in Libia, sotto le bombe britanniche, poi in Italia come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’8 settembre 1943 e la resa italiana agli anglomericani, vennero il ritorno a Trieste e l’adesione alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione. Allora, nel 1944, era cominciato il periodo più tragico della vita di Pahor, con la reclusione in diversi lager, situati in Francia e in Germania. Essere un poliglotta (oltre all’italiano e allo sloveno, utile per comunicare con tutti gli slavi, conosceva il tedesco e un po’ di francese) probabilmente gli salvò la vita: venne addetto al compito d’infermiere ed evitò i lavori più pesanti, che riducevano i detenuti a larve umane. Di quei giorni terribili, trascorsi con il lezzo ripugnante della morte sempre addosso, avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli (1967), definito da Claudio Magris «un’opera magistrale», composta con «limpida sapienza strutturale», per il modo in cui riferisce, «con asciutta precisione fattuale», la realtà agghiacciante dell’«abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto». Nonostante la sua indiscussa eccellenza letteraria, che lo avvicina alle opere di Primo Levi, Necropoli, scritto ovviamente in sloveno, aveva dovuto attendere trent’anni per essere tradotto in italiano nel 1997, dalle semisconosciute e meritorie Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese, e solo nel 2008 era uscito presso un editore di statura nazionale, Fazi, con la prefazione di Magris. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion d’onore: i suoi ricordi del lager erano usciti in Francia nel 1990. In Italia per lungo tempo solo la piccola casa editrice Nicolodi (poi Zandonai) di Rovereto aveva preso in considerazione le altre sue opere, tra cui Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2004), Una primavera difficile (2009). Di recente il suo romanzo Oscuramento era uscito presso La nave di Teseo» [Carioti, CdS]. «Ardeva di vita. Cinque anni fa lo accompagnai a ritirare dei soldi nella sua banca sul Carso. Gli tagliò la strada una bella bruna, e lui reagì come un ragazzo. Mi si aggrappò al braccio e disse: “Ah, se avessi solo dieci anni di meno...”. Pochi mesi fa gli chiesero un’intervista-video di tre minuti da inoltrare in Germania come ringraziamento per un premio europeo di cui ero compartecipe. Ebbene lui, quasi cieco, seduto in poltrona, parlò per tre minuti esatti senza ripetizioni né sbavature. Alla fine confessò di avere ancora un progetto. Era L’Homme revolté, disse in francese, citando il suo modello, Camus, e il memorabile pamphlet Indignez-vous, scritto da un altro grande vecchio, Stéphane Hessel. Per lui il francese era la lingua della liberazione: dopo il lager era stato spedito a riabilitarsi in terra transalpina, dove una dolce infermiera lo aveva riaccompagnato fra i vivi. “Mi basterebbero due anni per scriverlo”, confessò» [Rumiz, Rep].