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 2022  maggio 03 Martedì calendario

Biografia di Renato Vallanzasca

Renato Vallanzasca, nato a Milano il 4 maggio 1950 (72 anni). Bandito • «Il bel René» • «Il boss della Comasina» • «Il fiore del male» • «Il mito della mala milanese» • Celebre per il suo ascendente sulle donne, per le evasioni rocambolesche, per lo sguardo beffardo, per la fama di duro, per il suo carisma, perché faceva le rapine in abito gessato. Condannato a quattro ergastoli e 295 anni di carcere complessivi per un’infinità di reati, tra cui: una settantina di rapine, 7 omicidi (tra cui 4 poliziotti, tutti in scontri a fuoco stile western), 4 sequestri di persona, più una guerra vinta col clan Turatello • «L’Italia ha avuto tanti delinquenti. Ma pochi, o nessuno, come Renato Vallanzasca» (Carlo Verdelli, Rep 8/2/2015) • «Un uomo che ha molto ucciso, molto rapinato, è molte volte evaso, ha massacrato un suo amico, lo ha decapitato e ha giocato a palla con la sua testa» (Claudio Sabelli Fioretti, iO Donna, 9/8/2014) • «Il capo di una delle bande più feroci che si siano viste in Italia. Un bandito vero, come si vedono nei film americani. Uno che i giornali gli sbavavano dietro per avere un’intervista, una foto. Uno su cui ancora si scrivono libri. Un’epopea degli anni Settanta» (Lanfranco Caminiti, Garantista 28/6/2014) • Lui, dovendo autodefinirsi, ha detto: «C’è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro».
Titoli di testa «“Dai miei tempi è cambiato tutto. Se uscissi domani mattima e mi mettessi a fare il bandito, mi farebbero fuori in tre giorni”. Perché? “Il mondo sta andando a puttane. Non c’è più rispetto, non c’è più senso dell’onore. La malavita, e quindi il carcere, riproducono, ovviamente in peggio, gli stessi meccanismi della società. Noi avevamo un codice deontologico: io, per esempio, non ho mai sparato per primo”» (Stefano Arduini, Vita 30/8/2004).
Vita Figlio illegittimo di Osvaldo Pistoia e Marie Vallanzasca • Il padre, nato a Pisa, trasferito a Milano, ha avuto una vita difficile. A nove anni è già operaio negli altiforni (prima all’Ilva, poi alla SIAI-Marchetti). A sedici entra alla Breda (reparto materiale rotabili). Nel ‘28 è alla Fiat Lingotto di Torino, dove perde due dita sotto una pressa. Torna a Milano, apre un banco di frutta e verdura e nel ’32 sposa Rosa Pescatori, con cui mette al mondo due figli, Ennio e Giorgio. Nel ’44, in una sala da ballo, conosce Marie Vallanzasca, figlia di albergatori di Lesa, sul Lago Maggiore, che, insieme alla sorella, è venuta a Milano per aprire un negozio di abbigliamento. Amore a prima vista. Lui le racconta di essere giornalista del Corriere della Sera e le nasconde di essere padre di famiglia. Finché lei si presenta in redazione e scopre la bugia. Finisce che Osvaldo presenta a Marie moglie e figli. Nell’ottobre del ’48, si separa da Rosa e va a convivere con Marie (lui ha 47 anni, lei 31). Dopo Renato (5 chili e 7), il secondo figlio, Roberto, nel ’53. Nel ’56 la casa di via Porpora, 162, a Lambrate, proprio sopra il negozio, diventa troppo piccola, e papà Osvaldo manda Renato e Roberto a vivere con la prima moglie, che per loro diventa “zia Rosa” (al numero 2 di via degli Apuli, al Giambellino). Significa anche trasferirsi da un quartiere piccolo borghese a un quartiere popolare. «“Anche se non ero di una famiglia benestante, non ci mancavano i mezzi, eravamo in una condizione agiata”. Allora perché hai scelto questa vita? Come hai cominciato? “Sin da piccolo rubacchiavo i soldatini”» (Stefano Di Stefano, Corriere d’Informazione, 29/11 e 1/12/1976) • I ragazzi come lui vengono chiamati ligera, sempre pronti a darsi alla fuga per averne combinata una grossa. Il loro passatempo preferito è il gioco del carelot. «El carelot… bei tempi». Un ripiano di assi con una ruota davanti e due dietro incastrate su cuscinetti a sfera, si divertono come pazzi a legarlo con lunghe corde al rostro posteriore dei tram, all’altezza delle ruote. Partenza capolinea di piazza Tirana, vince chi resiste più a lungo correndo in parallelo al tram. Non oltre duecento metri dalla partenza, dove comincia una fila di pali della luce. «A quel punto era importante riuscire a tendere la corda per creare l’effetto fionda all’impatto con il palo, facendosi così catapultare più lontano possibile» • Primi furti: gli album delle figurine e i fumetti nelle edicole. Poi passa a Standa, Rinascente, Upim. Nascondiglio della refurtiva: una cantina abbandonata di via Apuli numero 6. Un pomeriggio d’inverno del 1960, incuriosita dai rumori, una vicina si affaccia e lo scopre. Per farla tacere Renato le offre un phon. La voce si sparge nel vicinato e Renato e i “suoi” cominciano a fare furti su commissione, per lo più accontentandosi in cambio di frittelle e pane e marmellata. «Divoravo i libri di Salgari, quelli con Sandokan e i Pirati della Malesia. Tra un furtarello e l’altro mi sentivo il tigrotto di Lambrate o del Giambellino» • Prima volta in carcere: a otto anni, per aver liberato dalle gabbie gli animali del circo Medini. Renato ha visto il domatore frustare una tigre (qualcuno si era sbagliato a darle la seconda razione di carne, l’uomo aveva provato a toglierla dalle fauci, ma quella non voleva mollarla) e non ci pensa due volte. Attua il piano di notte, coinvolgendo anche il fratellino Roberto, cinque anni (quello per poco non rimane travolto da un elefante). La mattina dopo viene prelevato dai poliziotti mentre gioca a pallone e rimane nella sezione carceraria del Beccaria per due giorni senza che nessuno avvisi i genitori (Roberto aveva promesso di non fare la spia) • A scuola non se la caverebbe male, se non fosse così indisciplinato. Il primo anno alle medie ha un’ottimo profitto, ma lo bocciano per la condotta. Passa alla scuola dei preti, ma rifiuta di fare la prima comunione: seconda bocciatura. «Non credo ai preti e a tutte le loro canzoni, ma questo è un argomento troppo personale, di cui non mi va di parlare». Finché non viene espulso da tutte le scuole d’Italia, per avere picchiato a sangue il professore di matematica, colpevole di aver preso a scudisciate il compagno di classe che lui aveva preso sotto la sua protezione per difenderlo dagli altri che lo prendevano in giro per una malformazione (gli mancava un testicolo e tutti a dargli del frocio) • Prende la licenza di scuola media da privatista. Riprende gli studi, corso di perito meccanico, ma non fa per lui. Nel ’66 si iscrive a ragioneria. «Era la scuola in cui promuovevano anche i dementi. Dunque, il massimo per uno come me che non aveva né tempo né voglia. E poi, cosa dovevo studiare? Sapevo benissimo che in banca sarei entrato sicuramente. Ma saltando il bancone» • Le prime armi possedute fanno parte di un bottino rastrellato in un appartamento di lusso a San Siro, a quindici anni. Due beretta 7,65 e una calibro 22 da tiro a segno, una revolver Frankie Lama calibro 38, una Smith&Wesson calibro 38 canna lunga a sei colpi, due semiautomatiche di grosso calibro, quattro, cinque fucili da caccia per piccole prede e un fucile Remington 30/30 per caccia grossa. Per imparare a sparare, si spinge abusivamente nel retro del poligono, all’Idroscalo (per non farsi sentire). A neanche vent’anni ha già perso il conto dei furti in appartamento e delle rapine. È già entrato e uscito dal Beccaria e dalle case di educazione per minorenni più e più volte, per scontare pene di quattro mesi in quattro mesi. Prima volta a San Vittore: nel luglio del 1969. Sono le 16.30, a Lambrate, Pasquale Schettino, 65 anni, portavalori per una cartiera milanese, viene aggredito alle spalle. Renato lo colpisce alla testa con il calcio di una pistola, quello stramazza al suolo, lascia cadere la borsa, ma trova la forza di riprendersi e reagire. Si aggrappa all’aggressore, cerca di bloccarlo, chiama aiuto. Renato non esita, apre il fuoco, entra in un cantiere edile e la polizia lo insegue sui tetti della zona. Arrestato, alla polizia dice di essere convinto che nella borsa vi fossero i soldi delle paghe (invece c’erano solo documenti). «Se mi avessero dato dieci anni di galera, li avrei fatti senza fiatare. Me li meritavo. E invece incontrai uno di quei presidenti di tribunale convinti che a vent’anni ci si potesse ancora ravvedere». Se la cava con un anno e mesi dieci di reclusione. L’11 giugno 1970, anche grazie all’amnistia, viene scarcerato • Uscito da San Vittore, Vallanzasca si sente un vero duro. Si presenta a un festino organizzato dal fratello Roberto e approccia Consuelo Ripalta Pioggia, la ragazza più bella della festa (maggiorenne all’apparenza, invece non ha neanche quindici anni). Renato, con il bicchiere di whisky in una mano si libera l’altra della sigaretta portandosela alla bocca per prendere Consuelo per un braccio e le dice di seguirlo, così le insegnerà «un nuovo modo per disfare il letto». Una volta soli, lei non cede e lui passa alle maniere forti (prima un ceffone poi le strappa una spallina del vestito). A quel punto lei si spoglia da sola ma gli dice di lasciare i soldi sul comodino quando avranno finito. Renato prende atto della sconfitta, rinuncia ad averla e i due diventano amici inseparabili. Una sera, Consuelo non fa rientro a casa. Renato la fa dormire a casa dei genitori, senza toccarla con un dito, e il giorno dopo la riporta a casa dei suoi, avvertendo padre e fratello che se mai dovessero torcerle un solo capello, saranno guai per loro. Invece il padre (a cui mancava un pezzo di calotta cranica per un incidente su lavoro), la prende a cinghiate. Consuelo cerca riparo dalla madre di Renato, che non ha dubbi: d’ora in poi vivranno insieme (durante una telefonata implorante della madre di lei, scopre che Consuelo ha appena quindici anni). Renato prende in affitto un appartamento di tredici stanze, quattro bagni, ampio terrazzo (non meno di quindici milioni al mese, ma i proventi illeciti glielo consentono). Con Consuelo ha il primo rapporto dopo diversi mesi, su richiesta di lei, che rimane incinta quasi subito. Al quarto mese, per essersi spaventata all’ennesimo controllo di polizia, perde il bambino. «Consuelo la visse molto male. Al punto che da allora prendemmo l’abitudine di recuperare tutti i figli di amici e conoscenti per portarli di volta in volta al cinema, allo zoo, al parco dei divertimenti. Lei, io e cinque, a volte otto bimbi dai tre ai dieci anni». Nel ’71 la seconda gravidanza. Il 14 febbraio, insieme alla sua banda, Vallanzasca decide di mettere in atto un ultimo colpo, prima di iniziare una vita da onesto padre di famiglia. Il 14 febbraio 1972 Renato porta a segno con la sua banda una rapina al portavalori della Esselunga di via Monte Rosa. Qualcosa va male durante la rapina, parte del bottino va perso e Renato fa pure l’errore di coinvolgere Consuelo per andarlo a recuperare. I giornali ribattezzano la banda «la gang di San Valentino». Il 29 febbraio viene arrestato. Anche Consuelo finisce in carcere, per favoreggiamento, per uscirne solo a giugno. A luglio del ’72 nasce Massimiliano, per tutti Maxim • Vallanzasca, condannato a sei anni, ne passa in prigione quattro. Gira trentasei carceri in totale. Protesta. Chiede di essere avvicinato alla sua Consuelo e al suo Maxim. Il 31 dicembre 1974, assieme ad altri tre galeotti, tenta di evadere da San Vittore: segano le sbarre con una lima e si calano fino al cortile con una scala fatta con le lenzuola (ma i cani degli agenti si accorgono di loro, un secondino spara una raffica di mitra per intimorirli, e quelli si arrendono) • Nel maggio 1975 tenta di fuggire dal carcere di Campobasso assieme al suo compagno di cella, ma viene scoperto di nuovo. In una crisi di sconforto, tenta il suicidio inghiottendo una scatola di lamette da barba • A Bari minaccia di tagliarsi le vene (170 punti di sutura). A Lecce fa lo sciopero della fame. A Genova ingoia un pezzo di rete metallica e una manciata di aghi per non farsi trasferire in Sardegna («Me li porto ancora appoggiati nelle viscere quei pezzi di metallo. All’altezza dell’appendice. Me lo hanno dovuto scrivere sul fascicolo personale, perché ogni volta che passavo al metal detector suonavo»). Ovunque, provoca gli agenti, che gli rifilano botte da orbi. «Un ragazzo che non ha ancora trent’anni se viene arrestato e poi condannato all’ergastolo, sa che dopo ventotto anni di buona condotta esce. Ma mi sembra che uscire a cinquantotto anni non sia poi una bella prospettiva. Ammesso e non concesso che riesca a uscire, perché una cosa è fare il carcere come lo fanno tanti e un’altra cosa è farlo come l’ho fatto io, che ho avuto sette costole rotte, la commozione cerebrale. Quindi è ovvio che magari con gli anni possa subentrare la rassegnazione: è anche umano. Però dovrebbero passare degli anni. E io dopo sei mesi non me la sentivo di dovermi rassegnare» (Di Stefano) • Nel luglio 1976, pur di uscire dal carcere, arriva a procurarsi l’epatite virale. Per venti giorni si inietta nelle vene la sua stessa urina e comincia a nutrirsi di uova marce. «Le aprivo come si fa quando le si beve fresche e le mettevo al sole sulla finestra della cella. Nel giro di due o tre giorni cominciavano a diventare verdoline e a emanare un odore nauseabondo. Erano pronte. Le friggevo allora in un panetto di burro, e, per vincere la puzza e il sapore spaventoso, le avvolgevo in due sottilette, in modo da farne dei bocconcini. Scivolavano meglio in gola». Per essere sicuro si attacca alle bombolette a gas del fornelletto della cella. «Pippare il gas è perfetto. Sballa le transaminasi e se il fegato è già provato da altre mille torture, te lo giochi in un attimo». Insomma: quando, finalmente, viene trasferito in un reparto ospedaliero per carcerati, al Bassi di Milano, evade. È l’alba del 25 luglio 1976. «Ero in ospedale, in pigiama, in una camera. Ad un certo punto ho sentito del trambusto e mi sono alzato perché c’era una cameretta vicina in cui qualcuno gridava: “Sta male, sta male”. Io sono tornato indietro, mi son messo le ciabatte e ho visto l’infermiere che entrava con gli agenti, ho visto la porta aperta: non c’era nessuno» (Di Stefano) • Vallanzasca rimette su una banda. Componenti: Vito Pesce (una passione per cocaina ed eroina, «Usava le armi a sproposito. Con lui anche portar via lo zucchero filato a un bimbo diventava una guerra»), Claudio Gatti (altro tossico, «Sempre in guerra con il mondo intero. Solo io riuscivo a tenerlo un po’ a freno»), Mario Carluccio («l’uomo più coraggioso che mi sia mai capitato di conoscere»), Rossano Cochis, alias Mandingo, ex paracadutista («Da ex parà si buttava all’attacco. Aveva una risata baritonale»). Si specializzano in rapine e scarcerazioni. Si divertono a fare posti di blocco al contrario: bloccano le volanti nel cuore della notte e disarmano gli agenti. Dalla fine del ’76 al febbraio ’77 mettono a segno settanta rapine e quattro sequestri (due noti, Emanuela Trapani e l’architetto Bianconi, due mai denunciati dalle vittime). «Peggio che essere alla catena di montaggio. C’erano settimane che non riuscivo neppure a trovare il tempo per dedicarmi a quello che mi piaceva. Andare a cavallo o passare un paio di giorni lontano dalla mischia, a ossigenami un po’ in montagna. Veri stakanovisti del crimine. Che palle. Mi stavo riducendo come un travet» • Il 23 ottobre 1976 è accusato di aver ucciso un poliziotto a un posto di blocco nei pressi di Montecatini, sulla Firenze-Mare. Il 30 ottobre, due componenti della banda, Vito Pesce e Claudio Gatti, in una notte di follia uccidono il medico Umberto Premoli solo per rubargli l’auto. Quella sera se l’erano dette più del solito e, gasati dalla droga («Ti ho inventato io», «Sarà. Ma l’allievo ha superato il maestro»), avevano tentato il gioco del posto di blocco al contrario, ma gli andò male, si erano dimenticati di fare benzina, e dovettero fermare la prima macchina che capitava. Saranno catturati 2 settimane dopo • «Ero a letto con una donna, ho detto: "Che vita schifosa: perché io devo vivere insieme a certa gente?" È stato qualcosa di inutile, che non serviva. Questo tizio non faceva del bene, né del male a nessuno. Era lì che viveva, che faceva la sua vita, non era un elemento che pregiudicava la mia libertà. Era un tizio che per sfortuna si è venuto a trovare in quella via dove successe il disastro» (Di Stefano) • Il 12 novembre 1976, nel corso di una rapina ad Andria (Bari) rimane ucciso il bancario Emanuele De Ceglie. «Pur essendo stato il trascinatore della rapina, non fui io a sparare al cassiere. Quando partirono i colpi, ero nel caveau a rastrellare la grana». Il 16 novembre 1976, all’esattoria civica di piazza Vetra, a Milano, Vallanzasca vuole fare solo un sopralluogo prima di eseguire la rapina. Devono andarci solo lui e altri due. Invece, contro il suo dictat ci vanno tutti, così suscitando i sospetti di un impiegato che allerta la Questura. «L’esattoria di piazza Vetra è stato il luogo mitico della mia infanzia. La maestra ci portò a vedere i luoghi simbolo di Milano: il Duomo, la Scala, Brera. A me rimase impressa l’esattoria di piazza Vetra, con quella montagna di soldi. Ci pensavo da quando avevo dieci anni. Vi entrai per un sopralluogo. Vidi un agente che leggeva Topolino, e lo rimproverai: “ È così che si fa la guardia? Sistemati la divisa!”. Fuori, però, le cose si stavano mettendo male» (a Cazzullo). Vallanzasca fa in tempo a sentire Carluccio sfidare la polizia («Sbirro! Stavi cercando me? Sono qui, girati, sbirro!»). Ma quello fa prima, spara a bruciapelo uccidendo Carluccio. È il brigadiere Ripani, rimasto anche lui ferito. Vallanzasca non gli perdona di avere sparato alla nuca di Carluccio, e giorni dopo si traveste da medico e va per ucciderlo in ospedale dove nel frattempo è stato ricoverato. Invece trova madre e moglie del brigadiere a piangere al suo capezzale e rinuncia (il brigadiere non sopravvive comunque).
Mogli/1 Vallanzasca e Francis Turatello strinsero amicizia per la pelle a San Vittore. Per sancirla occorreva diventare compari e Turatello convinse Vallanzasca a sposarsi in carcere, per fargli fare da testimone e anche per fare notizia. La prescelta, Giuliana Brusa, cugina di primo grado di Claudio Gatti, di anni diciannove, che gli scriveva lettere appassionate e per vederlo andava a Firenze per partecipare a tutte le udienze del processo per l’omicidio di Montecatini. Dopo il matrimonio (celebrato il 14 luglio 1979), Vallanzasca pretese anche lei smettesse di lavorare, inaccettabile il contrario. I festeggiamenti faraonici. «Una torta che arrivava al soffitto. Champagne a fiumi. Cento bottiglie per il matrimonio e alte trenta per noi alla Sezione speciale, dove i festeggiamenti proseguirono. Mentre tutti i millecinquecento detenuti di Rebibbia ebbero il loro birillo di Taitinger a cranio. Senza trascurare il fatto che non ci fu organo di stampa che non continuò a parlare dell’evento per giorni e giorni. Se ci eravamo prefissi di far sapere al mondo intero del nostro matrimonio, inteso come mio e di Frencis, avevamo ottenuto lo scopo». Turatello gli regalò una svastica in oro massiccio con i bordi in onice nera tempestata di brillanti, valore novanta milioni dell’epoca. «So benissimo che non sei fascio, gli disse, ma mi diverte l’idea di metterti in imbarazzo con i tuoi amici compagni». Gli cedette anche una quota delle bische, che Vallanzasca accettò a condizione di usare i proventi per mantenere «parecchi bravi ragazzi» in carcere.
Mogli/2 Il 5 maggio 2008 ha sposato a Milano l’amica d’infanzia Antonella D’Agostino, che ha raccontato la sua storia in Lettere a Renato (Cosmopoli). Divorzio nel 2013. Adesso, ha una nuova fidanzata.
Spasimanti Non ha mancato di rispondere a una sola delle lettere che le sue ammiratrici non hanno mai smesso di scrivergli in carcere, spesso allegando foto che le ritraevano nude. Detiene il record in Italia, con oltre 10 mila lettere.
Teste Il 20 marzo 1981, durante una rivolta nel carcere di Novara, tagliò la testa a un ragazzo di vent’anni, Massimo Loi. La testa fu trovata in un bagno alla turca. «Hanno scritto sciocchezze, tipo che avevamo giocato a pallone con la sua testa mozzata, e io avevo bestemmiato per aver preso un palo. Falsità. È vero però che gli fu staccata la testa. Non da me» (Cazzullo).
Religione In carcere, ha letto la Bibbia da capo a fondo per cinque volte, finendo col considerarsi «un ateo convinto». Eppure, porta una croce al collo: «Me l’ha regalata una persona cui tengo molto di cui però preferirei non parlare».
Vezzi Porta sempre i baffi: «Solo una volta li ho tagliati, quando sono scappato dall’oblò di una nave a Genova. Di solito uno se li mette finti per non farsi riconoscere. Io, il contrario».
Vizi Le sigarette. «Sono arrivato a 110 al giorno, 5 pacchetti e mezzo. Risparmiavo sugli accendini: con una appicciavo quella dopo».
Curiosità Ha addosso 18 cicatrici • Quando, nel ’99, raccontò di aver liberato gli animali di un circo, durante un processo a suo carico si presentarono in aula i rappresentanti del Wwf, di Lega Ambiente e della Protezione degli Animali per rendere onore al suo valore • Rifiutò di sottoporsi al prelievo del sangue per verificare il possesso del gene della violenza, negli anni Settanta noto come la prova del cromosoma X • In prigione si tiene in forma con la cyclette • Negli anni d’oro meditò pure di rapire Berlusconi • Caporedattore di Salute InGrata, un mensile realizzato dai detenuti • Con un computer a disposizione inventariò tutti i libri della biblioteca del carcere • Non ha mai appeso una foto sulle pareti della cella («Non lo ritengo elegante») • Il 13 giugno 2014, mentre si trovava in regime di semilibertà (lavorava in una cooperativa), è stato arrestato per aver rubato biancheria intima in un supermercato di Milano (si beccò altri dieci mesi e 330 euro di multa) • In carcere indossa uno Swatch nero con lancette arancioni: «Me l’ha portato la mia donna. Qui non si può tenere il Rolex, perché è di metallo. Sempre indossato Rolex, anche se il mio ciulava un minuto al giorno. Questo almeno non ruba» • Non ha mai chiesto perdono alle proprie vittime • Il figlio Maxim non vuole saperne di lui e di questo è molto dispiaciuto • «Il mio sogno è quello di poter essere utile, in questo spicchio di fine esistenza. Di lavorare con i ragazzi difficili. Non so se ne avrò la possibilità: per ora mi è capitato di incontrarli qualche volta. A loro ho sempre detto: non imitatemi. Nessuno meglio di me sa dissacrare i miti. A partire dal mio. Che mito è quello di uno che ha trascorso due terzi della propria vita in galera?» • «Un’ultima domanda. Quando sarà, cosa vorresti ci fosse scritto sulla tua lapide? “Ha vissuto. Male. Ma ha vissuto”» (Arduini).
Titoli di coda «Quando fu catturato per la prima volta, a Roma, e portato, in manette, sul famoso balconcino, sotto c’era una folla di fotografi e giornalisti. Uno dei giornalisti, nel clima sociologicizzante dell’epoca, gli chiese: “Vallanzasca, lei si ritiene vittima della società?”. E lui rispose: “Non diciamo cazzate”. Lo avrei graziato solo per questo» (Massimo Fini).