5 maggio 2022
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Biografia di Jeffery Deaver
Jeffery Deaver, nato a Glen Ellyn (Illinois, Stati Uniti) il 6 maggio 1950 (72 anni). Scrittore. Autore di libri di genere poliziesco. Oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo. «Tutti possono scrivere una buona prosa, ma una buona prosa non serve a niente. È la storia che fa il romanzo» (a Pierfrancesco Matarazzo) • Figlio di un redattore pubblicitario e di un’artista. «Non ero un bambino molto atletico, non mi dedicavo allo sport e avevo pochi amici. Mi piaceva leggere e andare al cinema» (a Cristina Taglietti). «Ho sempre amato molto le storie brevi e ricche di pathos. Nutrivo una grande passione per Il signore degli anelli e per i romanzi di Ian Fleming, ma a farmi veramente impazzire era Edgar Allan Poe. I suoi racconti, in particolare Il cuore rivelatore, mi terrorizzavano. Ho intuito molto presto che questo è il tipo di scrittura che coinvolge il pubblico. La paura può catturare lo spettatore trascinandolo dentro la storia, e questo è il motivo per cui mi sono concentrato su questo genere». «È vero che ha scritto il suo primo romanzo all’età di 11 anni? Lo ha ancora? “Era un racconto, in verità. Una storia avventurosa, un paio di capitoli alla James Bond. Ho sempre amato Fleming e il suo agente segreto. Non so che fine abbia fatto il mio testo, ma già allora sapevo che quello sarebbe stato il mio lavoro”» (Matarazzo). «Per scrivere un buon thriller, mi ci è voluto molto più tempo. Ho dovuto studiare tutti i più famosi scrittori di suspense di quell’epoca per poter capire come dovevo muovermi. E solo a trent’anni anni mi sono sentito sicuro di poter scrivere un’opera di quel genere» (a Luca Crovi). Nel frattempo aveva studiato giornalismo e giurisprudenza. «Ho passato molto tempo a fare il giornalista, e mi piaceva pure: credevo che mi avrebbe insegnato a intervistare le persone e a scrivere in modo più chiaro» (ad Angelo Carotenuto). «Per sopravvivere ho fatto molte cose, fino all’avvocato nel settore commerciale. […] L’esperienza in campo legale non mi ha offerto spunti per le storie da raccontare, ma mi è servita come metodo: mi ha insegnato a fare le ricerche, a organizzare il materiale». «“Io sono purtroppo un tipo molto empatico”, spiega. “Voglio dire che riesco molto bene a mettermi nei panni altrui”. Una dote benedetta per uno scrittore, no? “Già. Ma meno per un avvocato”. E racconta di quella volta, quell’unica volta […] in cui trafisse – metaforicamente – l’avversario, vinse la causa e si sentì terribilmente in colpa: “Il nostro cliente era una grossa società, citata in giudizio da un giovane dipendente. In gioco c’erano poche centinaia di dollari, un migliaio al massimo, che l’ex impiegato reclamava, senza però disporre di ragioni fondate. Così mi limitai a esporre il caso al giudice, che respinse infatti la richiesta. Ma io mi sentii malissimo quando vidi il ragazzo piangere, alla lettura della sentenza. Glieli avrei dati di tasca mia, quei soldi, pur di restituirgli il sorriso. Perché mi ero immedesimato troppo, mi ero messo al suo posto”» (Elisabetta Rosaspina). «Tra un contratto e un processo, da giovane Deaver componeva ballate country esibendosi nei localini della West Coast. Con scarso successo, ci tiene a precisare. A un certo punto, ha mollato tutta la zavorra e si è messo a scrivere romanzi» (Giancarlo De Cataldo). «Quando ho iniziato a scrivere mi capitava di rileggere ciò che avevo scritto e trovarlo terribile. I miei primi libri non spaventavano: solo me, perché erano brutti. La svolta è arrivata con Pietà per gli insonni. Poco dopo la pubblicazione del libro, il mio telefono squilla alle due di notte. Vado a rispondere, e all’altro capo del filo c’è una mia coppia di amici. La moglie mi dice: “Jeffery, per colpa tua non dormirò più serenamente insieme a mio marito per il prossimo mese”». Era il 1993. Il grande successo sarebbe però giunto nel 1997, con Il collezionista di ossa, prima apparizione di «uno dei suoi personaggi più riusciti, […] il criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme, […] celebre anche per avere avuto il volto di Denzel Washington nell’omonima versione cinematografica di Phillip Noyce» (Marco Bruna). «Rhyme vive in una palazzina di Central Park West che con la sua arenaria antica fa pensare alla casa di Sherlock Holmes, e in effetti ti sei ispirato al protagonista di Conan Doyle per le sue capacità intellettive, ma la sua stanzialità, anche se dovuta all’handicap, è un tuo omaggio a Nero Wolfe? “Sì, è così. Quando ho pensato al personaggio di Lincoln avevo in mente sia Sherlock Holmes che Nero Wolfe, due detective che risolvono i crimini con la mente, col cervello, come fa anche Poirot, che apertamente dichiara d usare le sue cellule grigie. Ho pensato che l’indagine mentale fosse più emozionante da raccontare, e Lincoln, tetraplegico, riesce a prevalere sull’avversario non con la forza o con l’azione, ma soltanto col ragionamento”» (Cristina Marra). «È vero che Rhyme doveva morire alla fine del primo romanzo? “Sì, confermo che inizialmente avevo pensato come finale del primo romanzo di Lincoln Rhyme un suicidio assistito, un’eutanasia. Ma, man mano che scrivevo, mi rendevo conto di avere per le mani un personaggio interessante, affascinante. E poi non amo i finali tristi…”» (David Frati). Deaver ha infatti dedicato a Rhyme una lunga serie di romanzi (tra gli altri, Lo scheletro che balla, La dodicesima carta, L’ombra del collezionista, Il bacio d’acciaio, Il taglio di Dio), l’ultimo dei quali è Il visitatore notturno (Rizzoli, 2021). «Deaver, come nasce questa nuova storia, come sempre ad alta tensione? “Ho avuto un problema con la serratura della porta di casa. Ho chiamato un fabbro. Ho visto con quanta facilità è riuscito ad aprirla e ho pensato: cosa succederebbe se, quest’abilità, l’avesse qualcuno con cattive intenzioni? Che tipo di danni farebbe? Così è nato il Fabbro, che entra negli appartamenti nel cuore della notte, sposta qualche oggetto, osserva la vittima dormire. Poi se ne va. I segni del suo passaggio sono quasi impercettibili: nessuna violenza fisica, solo lievi manomissioni dello spazio, con cui si appropria dell’intimità altrui, sconvolgendola”» (Annarita Briganti). Parallelamente, Deaver ha continuato a scrivere sia romanzi autonomi (Profondo blu, Il giardino delle belve, October List) sia libri imperniati su altri personaggi, quali il ciclo dedicato all’esperta di cinesica Kathryn Dance (La bambola che dorme, La strada delle croci, Solitude Creek), un volume della saga di James Bond (Carta bianca) e, più recentemente, la serie (Il gioco del mai, Gli eletti, The Final Twist) che «ha come protagonista un cacciatore di taglie. O forse sarebbe meglio dire di ricompense: Colter Shaw trova persone scomparse o in pericolo. Come nasce il nuovo eroe? “Alcuni anni fa ho scritto una serie su […] un tipo che gira in lungo e in largo il Paese alla ricerca di set cinematografici e, casualmente, fa il detective dilettante. Mi piaceva l’idea di un protagonista itinerante, ma il fatto che lavorasse per una compagnia di Hollywood e si trovasse a risolvere crimini per strane coincidenze mi sembrava un po’ artificiale. Così ho iniziato a pensare a un nuovo personaggio, che mi avrebbe permesso di raccontare storie in luoghi diversi in modo più realistico”» (Sara Gandolfi). «Shaw è un eroe, puro e semplice. È come l’uomo senza nome dei film di Sergio Leone, interpretato da Clint Eastwood, una vera fonte d’ispirazione per Shaw. Viaggia in tutto il Paese, alla ricerca di ricompense per le persone scomparse e i criminali evasi. È interessante notare che non gli importa dei soldi: è un uomo irrequieto, si reca sul posto e accetta la sfida» (a Francesco Musolino). «Sono uno scrittore che guarda anche al mercato editoriale. La parte dell’uomo d’affari ogni tanto prende il sopravvento. Attraverso Colter Shaw mi sono reinventato, ho trovato un nuovo stile, che definisco streaming, proprio come lo streaming televisivo. Scrivo libri che hanno molto in comune con i ritmi e i linguaggi delle serie tv: capitoli e paragrafi brevi, dialoghi essenziali, più centrati sull’azione. Cerco di catturare l’audience, di intrattenerla, di portarla dalla mia parte». Uno degli ultimi libri di Deaver è proprio The Final Twist (2021; ancora inedito in Italia), in cui «Shaw si trova tra le mani una lettera firmata da suo padre, una lettera che contiene verità nascoste che possono fare luce sulla sua morte e sulla scomparsa di altre persone a San Francisco. Dallo Stato di Washington, dove lo avevamo lasciato alla fine di Gli eletti, si mette in viaggio per la California. Si troverà presto coinvolto in una caccia al tesoro pericolosa» • Celibe. «Vivo solo. Ho avuto delle relazioni, certamente. Ho una compagna e faccio una bella vita. Scrivo per vivere, ma viaggio anche molto. Soprattutto per promuovere i libri e fare ricerche» • «Non credo di essere cambiato con il successo. Mi alzo ogni mattina con la paura di non soddisfare chi mi permette di fare questo lavoro. Mi dedico completamente alla scrittura, cercando di farlo sempre meglio. Nella vita privata colleziono amici, il bene più prezioso del mondo, e guido la mia Maserati a 170 all’ora, ma non so se si può dire» • «Soffro di claustrofobia. Da piccolo passavo molto tempo a casa di mia nonna. Rifaceva i letti con uno stile militaresco. Le coperte erano talmente strette attorno al materasso che non respiravo: mi sembrava di stare in trappola» • «Io amo il cibo, ed è una passione che ho condiviso col mio amico Giorgio Faletti. Anche nei miei thriller inserisco ogni tanto qualche pietanza». «Il mio piatto preferito è la cotoletta. Mi sono fatto dare la ricetta dal mio amico Carlo Cracco» • Democratico. «Non sono un socialista, ma un capitalista con coscienza». «“Aborro la violenza nelle strade. Credo che i monumenti ai razzisti e ai fautori della schiavitù non debbano essere distrutti, ma spostati dentro i musei. Dovrebbero essere artefatti storici, esposti con informazioni su ciò che le persone che rappresentano hanno fatto e detto. Non dovrebbero essere santuari di istituzioni disgustose come la schiavitù e l’oppressione”. […] Lei appoggia il movimento Black Lives Matter? “Sì, lo sostengo. Siamo a un punto di svolta: è impossibile continuare a nascondere la realtà. La schiavitù e il razzismo, come conseguenza diretta, sono la più grande vergogna di questo Paese, e gli effetti continuano a farsi sentire. È tempo di cambiare le cose”» (Musolino) • «Adoro la poesia. Amo leggere Frost, Pound e soprattutto T.S. Eliot. La poesia insegna la potenza e la consapevolezza della parola» • «Il romanzo che l’ha più influenzata? “Il signore degli anelli di Tolkien. E poi Ian Fleming, Agatha Christie, un amalgama di vari scrittori”» (Gandolfi) • «Quali sono i suoi scrittori contemporanei preferiti? “Tanti italiani: Michele Giuttari, Gianrico Carofiglio, Carlo Lucarelli, Roberto Costantini, Giorgio Faletti. Amo la serie di Montalbano di Andrea Camilleri. Tra gli americani, Michael Connelly e Dennis Lehane su tutti”» (Bruna) • «“La gente non comincia un libro per arrivare a metà, ma per arrivare alla fine”. È di Mickey Spillane l’unico comandamento che l’ex avvocato che ha scelto la scrittura segue quando scrive i suoi libri. Ed effettivamente è difficile per un appassionato del genere giallo non arrivare alla fine dei suoi romanzi, macchine narrative perfette, scritte con grande cura dei particolari e sempre in grado di riservare un colpo di scena» (Taglietti) • «Mi piace scrivere racconti, mi è sempre piaciuto e continuerò a farlo. Sono anche fortunato perché mi riesce facile. […] Un romanzo è un’opera che prevede almeno tre sotto-trame, legate tra di loro. Un racconto ha un solo tema. È in questo senso anche possibile scrivere un racconto senza un eroe positivo: il cattivo può essere il protagonista. In un romanzo, invece, dobbiamo avere un eroe da amare» (a Severino Colombo) • «La cronaca è una fonte di ispirazione? “In certi casi. Di solito scrivo libri che si svolgono in un ridotto lasso di tempo, pochi giorni. Un ingrediente fondamentale è la molteplicità delle prospettive. Lo stesso fatto, il lettore, lo deve vedere da quattro, cinque prospettive diverse che sono le stesse dei personaggi principali della storia. Se la cronaca si presta a queste premesse, può essere d’aiuto”» (Alberto Grandi) • «Studio la stesura dei miei libri per circa otto mesi, facendo contemporaneamente un sacco di ricerche. Non mi metto a scrivere nulla fino a quando non so esattamente che tipo di storia sarà. E le mie bozze di lavorazione possono anche arrivare a superare le 150 pagine. Poi il libro si scrive da solo: mi bastano solo due mesi per comporlo, perché so dove sto andando». «So sempre come va a finire una mia storia, ancora prima d’iniziare a scriverla. […] Alcuni autori si lasciano trasportare dalle emozioni. Io invece credo che sia più efficace avere una struttura su cui basarmi, piuttosto che mettermi al computer e improvvisare» • «Concepisco i miei romanzi come partiture e mi ispiro spesso alle sinfonie di Beethoven, il compositore che preferisco. I miei thriller hanno sempre una struttura sinfonica con un leitmotiv, un adagio, un vivace e un finale in crescendo, anche se non trascuro qualche momento di improvvisazione jazz» (a Massimiliano Chiavarone) • «Quando finisco di scrivere i miei romanzi, li leggo ad alta voce per vedere se c’è la giusta armonia fra le parole, se le sonorità usate sono quelle giuste per sottolineare l’azione, la sensazione che vorrei provocare nel mio lettore. Userò per esempio un linguaggio e una sonorità diversa in scene d’azione (parole di poche sillabe, paragrafi contratti) rispetto a scene dedicate all’analisi interiore di un personaggio (periodi più lunghi, parole più ariose, con maggiori sfumature). Questo aiuta il lettore a entrare nel profondo della storia, a percepirne il ritmo, preparandolo a quello che accadrà dopo» • «Sforna un best seller all’anno traendo l’ispirazione dopo essere rimasto per ore seduto in una stanza buia, con gli occhi chiusi (“per vedere nella mia immaginazione le singole scene della storia”)» (Gloria Satta). «Il lockdown non mi ha creato particolari problemi, perché parte della mia vita l’ho passata in una stanza buia a scrivere» • «Come rispondi a chi ti accusa di essere una macchina da bestseller che ripete sempre lo stesso canovaccio? “Il mio mestiere è fare ciò che piace ai miei lettori. C’è chi sostiene di scrivere per se stesso: non credetegli, si scrive sempre per chi legge, a meno che non si stia scrivendo la lista della spesa. E nel corso degli anni ho imparato che i miei lettori amano il tipico romanzo à la Deaver: unità di tempo limitata, ritmo veloce, colpi di scena. Prendiamo ad esempio Il giardino delle belve, che giudico il mio romanzo più ambizioso. Il libro è andato molto bene in Europa, […] ma è stato un po’ un insuccesso negli Usa. Quindi, siccome non sono un artista ma un artigiano che produce beni di consumo e ne vado orgoglioso, ho fatto marcia indietro e mi sono dedicato ad altri personaggi”» (Frati) • «Qual è il segreto del thriller perfetto? Quanti colpi di scena ci vogliono? “Una storia deve avere personaggi credibili, in cui le persone possano identificarsi, con situazioni di conflitto, con domande costanti talmente importanti da alimentare il desiderio dei lettori di andare avanti. I conflitti e le domande vanno risolti prima della fine del libro. Per quanto riguarda i colpi di scena, prima ne usavo di più. Ora ho capito che bisogna dare respiro al lettore, affinché la storia riparta con colpi di scena ancora più grandi, con sorprese ancora più grosse verso il finale”. Come si pone rispetto alla violenza, che caratterizza questo genere? “La violenza non va mai descritta, e nei miei thriller non troverete mai scene di violenza sessuale o scene di violenza contro bambini e animali. I miei libri devono essere un’esperienza piacevole per i lettori. L’essenza del thriller è la suspense. […] Nei miei libri il bene prevale sempre. Quando finisci di leggerli, puoi sperare che siamo in grado di affrontare il male e di portare avanti la nostra vita, nonostante la sua presenza”» (Briganti) • «“Ho una regola ferrea: mai inserire informazioni che potrebbero essere usate o messe in pratica”. Per esempio? “Per esempio, io so come si fabbrica una bomba o un gas tossico. Perché mi documento direttamente e dettagliatamente su tutto quello di cui scrivo. Sono istruzioni che certamente chiunque può trovare anche in internet, se vuole. Ma nessuno le apprenderà da me. Non voglio dare cattive idee né cattivi esempi, anche perché so di avere molti teenager tra i miei lettori”» (Rosaspina) • «Lei pubblica un nuovo libro ogni anno: non teme di trovarsi di fronte al blocco dello scrittore? Le è mai successo? “No. Per me scrivere è necessario, e mi diverto a farlo”» (Matarazzo) • «Per me è vitale riuscire a spaventare le persone. Io non voglio scrivere libri interessanti, ma avvincenti. Il lettore deve leggere un mio libro in un’unica notte, senza riuscire a staccare gli occhi dalla pagina, anche se vorrebbe, anche se quello che legge lo mette a disagio, lo spaventa, lo disorienta. Io ho bisogno di un lettore che vuole fuggire dalla mia storia e al contempo non può sottrarvisi» • «È importante per un libro avere una connessione con la realtà che circonda il lettore. Attenzione, però, a non scrivere un libro per mandare un messaggio al mondo. Se si vuole mandare un messaggio a qualcuno, è meglio usare Western Union: si hanno maggiori probabilità di arrivare a destinazione» • «Il miglior complimento ricevuto? “Tempo fa mi chiama un amico per raccontarmi che, entrando in camera, la prima notte di nozze, aveva trovato la moglie che leggeva un mio romanzo. ‘Prima devo finire questo’, gli aveva detto alzando a malapena gli occhi. Beh, se i miei libri sono più popolari del sesso…”» (Gandolfi).