11 maggio 2022
Tags : Paolo Casarin
Biografia di Paolo Casarin
Paolo Casarin, nato a Mestre (Venezia) il 12 maggio 1940 (82 anni). Ex arbitro di calcio. Ha fischiato ai Mondiali di Spagna del 1982 e agli Europei di Germania del 1988. Ha diretto la finale della Coppa delle Coppe 1985 (Everton-Rapid Vienna) e quattro finali di Coppa Italia. Nominato internazionale nel 1978. Ha arbitrato 200 partite in Serie A tra il 1971 e 1988. Esordio il 23 maggio 1971 (Bologna-Torino 1-0). L’ultima partita di A il 15 maggio 1988 (Juventus-Fiorentina 1-2). Ultima partita arbitrata Piacenza-Catanzaro, in Serie B, il 19 giugno 1988. Nel 1990, con il placet del governo, fu nominato designatore di A e B, ruolo che ha svolto fino al 1997. «Il pubblico è un doping incredibile».
Vita Perito chimico, funzionario della Snam (gruppo Eni), poi promotore finanziario. Nel 1958, a 18 anni, prese la tessera di arbitro, entrando a far parte della Sezione di Mestre • «È alto un metro e novanta, ed è ben piazzato di suo. Da perito chimico ha lavorato all’Eni, poi in banca. Ma per 28 anni è stato al centro del campo, per una decina al centro delle varie moviole» (Antonello Caporale) • «La mia vita è stata a lungo agitata. Quando lavoravo all’Eni ho viaggiato almeno vent’anni in tutto il mondo. Sono stato in venti Paesi dell’Africa e in Angola, sparavano con i kalashnikov contro le nostre residenze. Ero negli uffici di una raffineria in Cecoslovacchia durante l’arrivo nel 1968 dei carri armati del Patto di Varsavia e ho visto negli occhi delle persone del posto il terrore di una guerra, di quelle vere. Mi è capitato di arrivare il sabato sera dal Brasile e di arbitrare la domenica. Addirittura di atterrare la domenica mattina dall’India a causa di ritardi aerei e di essere in campo alle 14,30 per un Roma-Fiorentina. Esperienze che ho vissuto anche come sfide a me stesso» (a Massimo Sarti) • «A metà degli anni ’60 mi stavo per laureare, lavoravo già con l’Eni e arbitravo nelle serie minori. Mi mandarono in Sardegna per il servizio di leva: i primi mesi alla caserma Gonzaga a Sassari, poi a Perdasdefogu. A Perdasdefogu non c’era ancora la caserma e stavamo nelle tende, ma non lontano c’era un bel cinema e d’estate andavamo al mare ad Arbatax. Grazie al sostegno dei miei superiori, mi fu possibile arbitrare per tutta una stagione in serie D. Ricordo viaggi avventurosi con un sergente che mi accompagnava in auto, dato che io avrei preso la patente solo più tardi, proprio in Sardegna» (a La Nuova Sardegna) • «Severo con sé stesso, Paolo Casarin lo è anche con gli altri. Sostenuto dalla forza delle idee, le sue, mai banali, una vita, illuminata dal lavoro, 56 anni di fatica in due gruppi prestigiosi come Eni e Intesa. Resa popolare dall’essere una eccellenza nel mondo del calcio, prima come grande arbitro, poi come dirigente e designatore nazionale e internazionale. Gli ultimi vent’anni come ascoltato opinionista sul giornale, il Corriere della Sera, in radio e in tv. […] Perché a 18 anni si è messo ad arbitrare? “Ho trovato un calciatore amico, Panzanato, giocava allora nella Mestrina che mi ha detto ‘dai, provaci, vieni anche tu in mezzo al campo’. E mi sono impaurito, sovrastato da quel carico di responsabilità. Tutta quest’autorità, che ti insegnavano anche nelle lezioni teoriche, non la capivo. In me è sempre prevalsa, nel rispetto dei ruoli, la convinzione che i giocatori fossero amici”. Comunque le è andata bene, benissimo. “Col tempo, l’autoritarismo, cattiva compagnia, viene smussato. Guai se si arbitra seguendo il ‘qui comando io’. Non serve a nulla”. Ai suoi tempi l’arbitro era solo: decideva lui, massimo un’occhiata di intesa al guardalinee. Ora non c’è troppa gente che decide insieme o addirittura per lui? “L’arbitro vuole essere solo, una esigenza umana e culturale. Anche se a volte vivi una disperante solitudine”. […] Il giocatore che in campo aiutava l’arbitro Casarin? “Ho una bella testimonianza di Tarcisio Burgnich che in un Lazio-Napoli molto tormentato, continuava a dirmi: ‘dài Paolo, lavora tranquillo’”. Il giocatore più fastidioso? “Roberto Pruzzo iniziava a baruffare prima del fischio iniziale. Qualche anno fa, da componente di una giuria, sono stato felice di approfondire la conoscenza e premiarlo”» (Daniele Dallera) • «L’arbitro è venduto per principio. “Te ne dicono di tutti i colori ma ti caghi sotto solo prima di entrare in campo. Ricordo un collega peruviano che pregava stringendo il rosario in petto. Si affidava alla Madonna, credo anche alla mamma morta. Tremai un po’ anch’io quando ai Mondiali di Spagna mi dettero una rogna: gli spagnoli contro i tedeschi. Tocca a te, disse il designatore”. Entri in campo e sbagli. “Io avevo imparato a memoria il libretto con le 17 regole del calcio. Quelle diciassette regolette. Oltre quelle c’era la mia discrezionalità”. E qui siamo all’arbitrio. “Se sei onesto, e generalmente lo sei, non ti fai prendere la mano. Io, per controllarmi, tenevo il fischietto in tasca in modo che servisse del tempo, qualche secondo, per estrarlo. Quel tempo mi serviva come riflessione cognitiva: sto facendo una cazzata oppure no?”. Visto da fuori il campo di gioco sembra una piazza d’Italia. I potenti si riconoscono. “Si fanno riconoscere, sì. Li vedi da come ti guardano, dalla postura che hanno. I calciatori di nome stanno nelle squadre famose e quelle famose esigono rispetto”. Arbitrio. “Ai miei tempi succedeva di avanzare verso l’arbitrio, le regole lo consentivano. Io, per esempio, non fermai il gioco quando Giancarlo Antognoni venne colpito alla tempia da una ginocchiata dell’avversario, si giocava Fiorentina-Genoa. Il poveretto rimase lì immobile, steso a terra e deve ringraziare un bravissimo massaggiatore se le cure furono appropriate e tempestive. Io non avevo fischiato fallo. Non l’avevo reputato fallo. Fu arbitrio? Sì”. Lei forse era lontano dall’azione. “Adesso gli arbitri sono professionisti, si allenano per bene. Ai miei tempi si svoltava rubando al lavoro qualche ora per allenarsi. E c’era il fiatone, vedevi e non vedevi”. Quanto si guadagnava? “Per un Inghilterra-Olanda beccai 100 euro di oggi, oltre al rimborso spese”. Oggi invece? “I grandi partono da centomila euro all’anno in su e guidano un esercito di colleghi chiamati a guardare la partita da ogni angolo del campo. Poi c’è il Var, la macchina che ti consente di ridurre il margine di errore. È un altro mondo”» (ad Antonello Caporale) • «Nel 1983 arbitrai Maradona per la prima volta a Manchester: era il capitano a 23 anni del Barcellona. Piccolo, con il gagliardetto in mano, mi sembrò poco più di un ragazzo. Travolto dal risultato, ma preoccupato solo per l’integrità dei suoi piedi; mi chiedeva spesso di proteggerlo dagli inglesi. Quel Diego, tre anni dopo, in Messico, ha vinto un Mondiale da solo» (al CdS) • «Ci sono degli arbitraggi che ricorda con maggiore soddisfazione, per le situazioni che dovette affrontare? “Potrei dirle Germania-Spagna, nel secondo girone dei Mondiali del 1982 al Bernabeu di Madrid. Prima del match ci fu chi mi disse: ‘Prega, vai in chiesa, fai quello che vuoi, ma ci vuole la partita perfetta, altrimenti si butta all’aria il Mondiale’. C’era la Spagna che, secondo molti giudizi generali del tempo, era arrivata lì anche grazie a qualche ‘aiutino’. Vinse 2-1 la Germania che passò il turno, mentre la Spagna uscì. Ero molto contento, perché non avevo fatto errori che sarebbero diventati storici. Non avevo rovinato il Mondiale. Ricordo con piacere anche l’ultimo grande match internazionale, Inghilterra-Olanda nel girone eliminatorio agli Europei del 1988. L’Olanda (con tripletta di Van Basten, ndr) vinse 3-1 e c’era grande attenzione sulla Nazionale inglese perché erano gli anni della squalifica dei club dopo l’Heysel. Nessun cartellino, comportamento straordinario dei giocatori e grande partita. In generale un arbitro, anche in Terza Categoria, è felice se ha diretto secondo giustizia. Perché anche senza tv ci si rende conto se si ha fatto bene o male”. […] Lei dovette incassare in passato mesi di sospensioni per aver rilasciato interviste non autorizzate. Si arriverà ad avere l’arbitro che spiega in diretta al pubblico le proprie decisioni? Oppure che lo faccia con la stampa? “La spiegazione durante il match non credo. La conferenza dopo la partita andrebbe preparata, ma perché no? Quando ero designatore permisi a Collina nel 1997, dopo un Inter-Juventus a San Siro, di spiegare ai giornalisti la decisione di concedere prima e di annullare poi per fuorigioco una rete del nerazzurro Ganz. Riuscì a chiarire il perché. Istituzionalizzare un’abitudine del genere? Sono passati quasi 25 anni su queste cose siamo fermi. Nel 1977 ricevetti un’ammonizione scritta solo per aver spiegato agli allenatori una situazione che non avevano capito. Poi sarebbero arrivate anche le squalifiche... L’arbitro però per me potrebbe presentarsi alla stampa a fine gara, a maggior ragione adesso che c’è il Var e si può rivedere tutto e meglio”» (a Massimo Sarti) • A favore della tecnologia a supporto dell’arbitro, propose i giudici di porta già negli anni Novanta. «Era il 1996 quando l’allora designatore arbitrale Paolo Casarin convinse la Fifa a introdurre la lavagna elettronica per segnalare il tempo di recupero, in segno di trasparenza (gli arbitri fino ad allora si regolavano con molto mestiere e altrettanti sospetti) e di rispetto per il pubblico» (Furio Zara) • Scrive sul Corriere della Sera • È stato componente della commissione Fifa dal 1992, del Comitato designazioni ai Mondiali del 1994 negli Stati Uniti e del Centro di allenamento arbitri di Dallas • Una breve esperienza da dirigente con il Parma nel 2003. In televisione è stato ospite per Sky, Controcampo su Rete 4 e Quelli che il calcio su Raidue.
Amori Riservatissimo sulla vita privata. È sposato. «Avevo 28 anni, con un diploma di perito chimico in tasca. Ero un tecnico dipendente della Snam e fui catapultato a Gela, all’impianto Etilene. Sei mesi in cui ebbi modo di conoscere e apprezzare la Sicilia per quella terra meravigliosa che è. Mettiamoci anche il fatto che ho preso in moglie una messinese» (nel 2017 al Corriere di Gela).
Frasi «A me i furbastri stavano sui coglioni» • «I più formidabili accaparratori di palloni sono gli arbitri. D’altronde c’è un motivo ben preciso, i giocatori si scambiano le maglie tra loro, all’arbitro rimane il pallone» • «Le dinamiche psicologiche dell’arbitro sono complesse: quando inizia osserva e vive ai bordi del campo. Improvvisamente ti dicono “dai vieni qui in mezzo, mettiti alla prova”. A questo punto può succedere di tutto… Rischi di non capirci più niente, hai addosso un carico impressionante di responsabilità, autorità e discrezionalità che ti porta a un pensiero pericoloso, “adesso faccio quello che voglio”. Questa è la condizione opposta alla calma: l’uomo di potere e autoritario si muove a scatti» • «L’arbitro può raggiungere una sensazione impagabile: quando fischi il fallo giusto, prendi la decisione corretta, respiri e vivi il profumo della giustizia».